di VITTORIO FELTRI


Si fa alla svelta a dire i preti e quello che forse hanno fatto e che se non l’hanno fatto magari lo farebbero; già, sono uomini come gli altri: bella scoperta. In questi giorni è un macello. Mancava don Gelmini accusato di abusi sessuali su giovanotti delle sue comunità di recupero drogati. Ho detto giovanotti, non bambini dell’asilo e delle elementari che basta fare bau bau per spaventarli e costringerli a subire i nostri porci comodi. Nulla di tutto questo. Il vecchio sacerdote, spavaldo e burbero perché ha un sacco di cose da sbrigare, con tredicimila persone sparpagliate in Italia e nel mondo, stando alla denuncia avrebbe piegato ai suoi voleri libidinosi alcuni Maciste; e questi, chissà per quali motivi, non si sarebbero ribellati, loro che solo con uno schiaffone o uno spintone lo avrebbero ribaltato. A distanza di anni poi si sono recati dal giudice a piagnucolare come verginelle violate: quel prete ci ha fatto la bua. Ma andate a rane col bacchettone. Li conosciamo i tossici alla disperazione. Per una dose sono capaci di tutto come ogni buono a nulla: rubano rapinano ammazzano si prostituiscono. Ormai hanno la coscienza al burro fuso, pronti a qualsiasi nefandezza allo scopo di soddisfare l’esigenza di sostanza per il loro cervello sforacchiato. Figurati se si intimidiscono e si riducono ad agnelli passivi davanti al parroco arrapato. Credere a certe stupidaggini è impossibile se non si è ingenui o in malafede. Ho 64 anni e faccio fatica con una volontaria, immaginatevi con una che non ci sta. Don Gelmini, invece, 82 anni suonati, quando s’attizza diventa feroce più di un leone e ti sbrana tre o quattro Marcantoni come fossero lecca-lecca. Scusate, non vi viene da ridere all’idea che il nonno assatanato faccia strage di drogati rotti a ogni esperienza, marciapiede incluso? A volte la cronaca dei giornali sembra il canovaccio d’un film di Natale con Boldi nel ruolo di sciupafemmine o di castigamaschi, dipende. Nel caso di don Gelmini, inoltre, è impensabile che lui rischiasse rapporti – età a parte – con gente sieropositiva nella più ottimistica delle ipotesi. Solo un cretino si butta in avventure del genere, e la biografia dell’uomo viceversa è tutt’altro che quella di un cretino: basta dare un’occhiata alla sua colossale opera, 250 centri di salvezza per ragazzi rottamati dall’esistenza. Tutto questo non conta. Gli sputtanatori professionali non vanno a fondo, e di ragionare non se ne parla neanche. C’è un neo? Trasformiamolo in un bubbone sotto la lente d’ingrandimento dei media, e scordiamo il contorno che contraddice il puntolino nero. È una pratica antica quanto il mondo: prendi uno lassù in alto e buttalo giù, così ci divertiamo a sentire il fragore della caduta. Pessima storia che finirà in niente. Frattanto però don Gelmini trascorrerà notti insonni; l’angoscia gli suggerirà discorsi sbilenchi da consegnare ai taccuini dei cronisti; lui ne ha già consegnati alcuni, come quello degli ebrei lobbisti che s’è dovuto rimangiare per manifesta stupidità. Provate ad essere diffamati gratis. C’è da smarrire la sinderesi. Gli innocenti non sono preparati a difendersi e lo fanno da indignati irrazionali. Ricordo Enzo Tortora assediato dalle toghe: anziché smontare le accuse, sparava cazzate a raffica. E uno che ascoltasse aveva il sospetto: questo è rimbambito dalla coca. Nossignori. Era solo frastornato. Massacrato dal carcere. Incredulo di essere considerato un venditore di morte. Don Gelmini non è messo meglio: tira calci per uscire dall’angolo. Ma i calci non riparano niente. Qualcosa ferisce: ad averlo messo nei guai sono giovanotti ai quali ha cercato di fare del bene, togliendoli dalla strada dove si rotolavano nella loro merda e accogliendoli in comunità. La comunità, per chi lo ignorasse, non è un convento di novizie devote e mansuete; è un luogo di recupero in cui le regole o sono di ferro e vengono rispettate o non si recupera un accidenti. La fase di disintossicazione fisica è breve, un paio di settimane. Le cosiddette crisi di astinenza non sono uno scherzo, però passano in fretta. Il lavoro vero, quello lungo e difficile, viene dopo: la ricostruzione della personalità, dello spirito, della volontà è una operazione che richiede una grande applicazione del tossico e degli educatori; un lavoro di gruppo che comprende la dedizione a un mestiere, l’inserimento a pieno titolo nelle attività collettive. Insomma. Chi entra in comunità deve ricominciare da capo soggiacendo a norme ben delineate, opposte a quelle del randagismo tipico degli ambienti della tossicodipendenza. Riempire il vuoto lasciato dalla droga (o dall’alcol) è faticoso. Chi può farlo se non uomini inclini a sa- crificarsi in una sorta di missione priva di remunerazione se non esclusivamente morale? Muccioli fu un antesignano (ora sulle sue orme c’è il figlio con l’ausilio dei soliti Moratti) ed ebbe tante grane, anche giudiziarie, da scoraggiare un rinoceronte. Faceva del bene e gli davano addosso. Perché era manesco. Perché era qui ed era là. Trovare il pelo nell’uovo è un giochetto. Basta infilarcelo. I problemi nascono sempre dall’interno. Un pirla con pochi scrupoli disposto, anche senza trenta denari, a tradire il proprio benefattore è sempre in agguato. Il Giuda si annida fra coloro che si ribellano alle regole o non sono in grado di adattarvisi completamente. Reggono per un po’, quindi sgarrano e vanno incontro all’espulsione interpretata come un’ingiustizia, un affronto che chiama vendetta. Sono meccanismi elementari. Scattano automaticamente nelle menti più fragili. Gli educatori quali don Gelmini ne sono consapevoli, tuttavia non possono chiudere le palpebre per garantire il quieto vivere. In una comunità tollerare lo sgarro equivale a rompere l’equilibrio precario indispensabile a tenere insieme giovani impegnati a restituirsi la dignità di esseri umani indipendenti dagli stupefacenti. Ecco perché talvolta nei centri di recupero si creano dei corti circuiti. Ciò non stupisce. Stupisce semmai che puntualmente si sviluppi intorno a episodi, direi fisiologici, uno scandalo distruttivo tale da scalfire la reputazione di personaggi meritevoli di gratitudine e apprezzamento. Per comprendere il dramma (sarebbe più opportuno dire la tragedia) del fenomeno droga in continua espansione, ci sono soltanto due modi: avere un figlio drogato o frequentare una comunità non con lo spirito del visitatore di zoo, bensì con l’umiltà di chi accede a un pianeta di un’altra galassia. La fortuna o il padreterno, che è lo stesso, mi ha risparmiato il dolore di un tossico in casa. Però sono amico di un prete, don Chino Pezzoli, collaboratore di Libero, il quale gestisce con don Mario una trentina di centri in cui mi ha introdotto. Un certo clima, amici, bisogna respirarlo, certe facce vanno guardate, certe parole bisogna udirle. La comunità è un laboratorio organizzato come un alveare. Vedeste come agiscono in simbiosi le “api”, ciascuna col suo com- pito, ciascuna con le sue responsabilità, ciascuna col suo soccorritore lesto a intervenire. Ma chi ha insegnato a questi preti strani senza stole e senza turiboli a sporcarsi le mani con tanti derelitti, trasformandoli in ragazzi e ragazze alacri, sorridenti, solidali? Queste però sono impressioni. Serve rammentare che qui non piovono soldi dal cielo. Terre, capannoni, stalle, coltivazioni, latte, formaggi, alloggi civili – addirittura ospitali – non sono frutto di miracoli, ma della fede e del lavoro di un omino piccolo e tosto che prima fa e poi trova i soldi per pagare. Don Chino è una trottola a carica nucleare, mai esaurita. Ogni mattina, alzandosi dal letto, ha un’ossessione: raccattare 25 mila euro, quanto assorbe al dì la sua azienda di promozione umana, 500 giovinotti e giovinotte che se non avessero un “padre” come lui sarebbero dispersi nei meandri fangosi della droga. Quella di don Chino è una fondazione con le carte a posto. Solo in luglio ha spalancato i cancelli a 30 larve; in agosto siamo già a dieci. Diventeranno api. La Regione Lombardia passa 44 euro al giorno per ogni “degente”. Non sono quattrini buttati. La percentuale di recuperi supera l’80 per cento. Una comunità costa all’anno un decimo di un carcere che non salva nessuno. Se lo Stato anziché detenere in prigione i tossici li affidasse ai vari don Chini, finanziandone adeguatamente le strutture, risparmierebbe il 90 per cento. E allieverebbe la società di un peso greve. I danni provocati da un drogato sono incalcolabili. Sicuro, i Sert (Servizi pubblici per tossicodipendenti) svolgono egregiamente la loro funzione diagnostica, ma non ricostruiscono la personalità dei ragazzi e non li reinseriscono fra noi. Occorrono le comunità. Servono questi preti. Lo so che spesso i preti stanno sulle palle con quella voce che dà sui nervi; ma con chi li potremmo sostituire, con le Asl? Ce ne sono parecchi, bravi e generosi, tra i quali non vogliamo escludere don Gelmini. Cerchiamo di non gettare via le poche cose che funzionano nel nostro Paese. Un appello finale proprio ai preti che desideriamo ringraziare: cessino di litigare tra loro come politici qualsiasi. Accantonino le vendettine e facciano ciò che sanno fare meglio di chiunque altro. Amen.

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