daniele-sepeVenerdì al teatro Esperia e a Uj con Stefano Bollani

di Giovanni Dozzini

BASTIA UMBRA – Sessanta musicisti per dieci giorni in uno studio di registrazione con l’obiettivo di raccontare cosa succede la sera, di questi tempi, nei club e nelle piazze di Napoli. Capitan Capitone e i fratelli della costa è un disco nato così, come un consesso di bucanieri in una locanda della Tortuga, e il capitano è, e forse non poteva che essere, Daniele Sepe, uno che imbracciando il suo sassofono da quarant’anni solca mari di ogni genere, acque fatte di musica mai uguale a se stessa. Questo disco è uscito da poco, ma il concerto che Sepe terrà al teatro Esperia di Bastia Umbra col suo quartetto venerdì è tutta un’altra cosa. “Sì”, dice lui, “riprendiamo un progetto di qualche tempo fa che si chiama A note spiegate. Originariamente era un ciclo di serate in cui, appunto, oltre a suonare provavamo un po’ a spiegare al pubblico com’è nato il jazze quali sono statele sue traiettorie nel tempo”. Da cos’era nata quell’esigenza? “Mi preme molto che la gente capisca che il jazz era e dovrebbe continuare a essere una musica popolare, molto legata alla socialità, al ballo, all’incontro tra persone. Popolare come lo erano l’opera o la musica classica trecento anni fa, del resto. Ecco, ho paura che il jazz finisca per diventare simile a quel che è la musica classica oggi: sempre più ingessato e autoreferenziale”. Quindi all’Esperia ci dobbiamo aspettare più musica o più racconti? “No, all’Esperia suoneremo, pur attingendo soprattutto al repertorio di A note spiegate, che era diventato anche un disco.Poi chiederò al pubblico se avrà voglia di ascoltare qualche storia”. E Capitan Capitone? Anche questa sembra una storia esemplare. “Sì. È cominciato quasi per gioco, e mi sono ritrovato a imbarcare vecchi amici e giovani musicisti. Volevo descrivere a chi sta lontano da Napoli com’è,oggi,la scena musicale napoletana. Dopo la morte di Pino Daniele nell’immaginario comune si è aperto un vuoto, ma in verità questo vuoto non esiste. C’è molta gente in gamba, e fare questo disco è stata un’esperienza molto bella e, per qualcuno dei ragazzi, immagino molto formativa: siamo entrati in studio senza una sola canzone già pronta, abbiamo pensato e scritto tutto insieme, in quei giorni passava gente per caso e si fermava a farei cori o a cantare o a suonare. Un lavoro auto prodotto dall’inizio alla fine. Io d’altronde sono un collettivista. Dieci teste pensano meglio di una. E sono certo che a Napoli si possa creare un movimento aldilà dei generi, in cui chi fa jazz non schifi chi fa cantautorato, per dire, e viceversa”. Nessuno meglio di lei, dopotutto, può incarnare la pratica della contaminazione tra i generi. “Sì, sono fuori posto da qualsiasi parte. Per i festival jazz sono troppo pop, per i festival world sono troppo jazz. Ma la vita è troppo breve per dover scegliere di ascoltare e suonare solo un certo tipo di musica. Sarebbe uno spreco. E poi io non credo nelle etichette.La musica può essere solo buona o falsa”. Un altro che negli schemi non si trova un granché bene è Stefano Bollani, con cui verrà a suonare a Umbria Jazz il prossimo 17 luglio. “Sì, Stefano è come me. Uno che suona con disinvoltura insieme a Irene Grandi o Zubin Mehta. A Umbria Jazz saremo per il tour di Napoli Trip, un disco che esce a brevissimo. È un disco sull’idea di Napoli e della musica napoletana, un’operazione che hanno fatto in tanti e che per questo era molto pericolosa. Ma certi pezzi che ha fatto Stefano mi hanno davvero commosso e inorgoglito della nostra tradizione. È stato un enorme piacere”.

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