PRODI NON TIENE

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di VITTORIO FELTRI


La prima pagina di LiberoIl Palazzo è chiuso per ferie invernali, ma gli inquilini non si quietano. Polemizzano fra loro; anziché auguri si scambiano invettive, le solite. Tra i più ciarlieri, Lamberto Dini, quello che minaccia da un trimestre di far cadere il governo perché subisce i ricatti della sinistra massimalista, ma che fin qui ha sempre votato con la maggioranza, allineato e coperto. Una condotta, la sua, incomprensibile. Ieri il leader dei liberaldemocratici, quattro gatti, ha ripetuto la litania: Prodi non tiene (come illustrato nella caricatura, qui in prima pagina), è privo dei numeri per andare avanti; quindi noi indicheremo quali sono le misure di cui il Paese necessita allo scopo di superare il declino, dopo passeremo all’opposizione. Tutte cose sensate, intendiamoci; ma un conto è dirle – Dini le dice da una vita – un altro è decidersi a farle, tant’è che siamo invecchiati aspettando invano. Però non disperiamo. Chissà che presto o tardi Lamberto rompa gli indugi e si comporti coerentemente. Col suo ultimo discorso egli introduce, nella pratica, la propria candidatura a presiedere un probabile prossimo esecutivo di transizione: scrivo il programma e se vi sta bene, eccomi qua, sono pronto alla chiamata del destino. Ne prendiamo atto. Mi sembra di intuire che nel centrodestra qualcuno sia disposto ad appoggiare l’ex dirigente di Bankitalia una quindicina di mesi, giusto il tempo per portare a casa il bottino minimo indispensabile: una legge elettorale che di fatto non cambi le carte in tavola e conceda ai partiti, inclusi i nanetti, lunga vita e prosperità, e la pensione parlamentare che matura dopo due anni sei mesi e un giorno dall’insediamento. Delle ideologie, degli ideali e perfino delle idee non importa a nessuno. L’unico a infischiarsene del vitalizio è Berlusconi per ovvi motivi: si è affrancato dal bisogno da vari decenni. Beato lui. Nonostante questo, Romano Prodi non demorde. Soddisfatto per l’approvazione della Finanziaria, avvenuta in circostanze da “realtà romanzesca”, affronta a ciglio asciutto il plotone di esecuzione. Ha in tasca tre o quattro fogli sostitutivi della domanda di grazia, sui quali è scritto come egli si illuda di recuperare il consenso di chi lo scelse (il 50 per cento degli italiani) quale premier. I suo intendimenti sono: ridurre le tasse ai povericristi (ribattezzati incapienti dagli appassionati di politichese) e sui salari dei lavoratori dipendenti, e un brodino tiepido per tutti. Poca roba, si dirà. Ma i comunisti l’accetteranno pur consapevoli che i soldi per finanziare simili operazioni non ci sono; d’al tronde Diliberto e Giordano devono tacitare la base, sempre più irritata e vogliosa di ribellarsi agli ordini del Soviet imborghesito. Vabbé, a gennaio si svolgerà la cosiddetta verifica e vedremo. La verifica, volendo precisare per chi non campa di pane salato e politichetta sciapa, è un incontro fra i partiti dell’Unione, ciascuno dei quali reclama dieci cose e, casomai ne strappasse una, giurerebbe fedeltà al presidente del Consiglio. Un rito barbonesco in uso e abuso dalla nascita della Repubblica fondata sulle chiacchiere. Mentre (non) accade tutto ciò, Prodi attacca Berlusconi e Veltroni. Avrà delle ragioni. Peccato che il prodotto della sua politica ci caschi in testa direttamente dal comignolo. E non è manna.

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