di FRANCESCO PERFETTI


È facile ipotizzare quali saranno le reazioni di Pier Ferdinando Casini quando scoprirà che la convinzione, nutrita fin da ragazzo, di essere un supremo genio della politica si scontrerà col fallimento delle sue strategie. Si stupirà, avrà un moto di stizza, ma si riprenderà subito. Continuerà a credersi un genio della politica, incompreso dalla politica. Continuerà a perseverare negli errori, dicendo fra sé e sé: «La politica non mi capisce e non mi segue? Peggio per la politica!». In realtà, sarà peggio, molto peggio, per l’Udc, la cui base non si riconosce (lo dicono già le prime rilevazioni di umori all’interno del partito) nelle elucubrazioni, nei contorcimenti destabilizzanti e nelle ammiccanti smanie di Pierferdinando e la cui sorte, nell’ipotesi (sventurata, ma probabilmente remota) di un passaggio dal centro-destra al centro-sinistra, sarà probabilmente segnata. La Repubblica dei Girella
In realtà Casini non è un volgare esponente (come altri, dei quali, per carità di patria, è meglio tacere il nome) della Repubblica dei Girella. Pierferdi è elogiato, in questo momento, da tutti (o quasi) i politici (o politicanti) dell’Ulivo che ne sottolineano il coraggio e lo invitano a guadare il fiume che separa i due poli. È coccolato dai mass media, soprattutto dai quotidiani della sinistra di tutte le sfumature (a cominciare dagli ex portavoce della borghesia italiana), felici di aver trovato in lui un fiero e prode guerriero da opporre, scudocrociato alla mano, all’ira funesta e all’impeto belluino del Cavaliere di Arcore. La vanità del bel Casini è solleticata. Ed egli può resistere con fiero stoicismo – rivelando una militanza vegetariana (insospettabile per un bolognese) – ai pazienti inviti berlusconiani per un pranzo a base di vitello in onore del figliol prodigo. Tuttavia, al di là delle battute, il motivo del corteggiamento di Casini è serio. Molto serio. E non è solo da rintracciarsi nella (contingente) speranza della scombinata armata Brancaleone al governo di raccattare in Parlamento, quando necessario, qualche voto o qualche benevola astensione o (male che vada) qualche assenza provvidenziale targata Udc. Il motivo è più profondo, e riguarda il fatto che Casini, consapevole o non consapevole, è portatore di un progetto nel quale i suoi corteggiatori si riconoscono: un progetto di restaurazione del vecchio modo di fare politica messo in crisi dalla ventata di liberalismo che ha attraversato, pur con tanti comprensibili ostacoli, il nostro Paese e ha reso (temporaneamente) orfani i cosiddetti poteri forti, ora in fase di ripresa e di ricompattamento. Il progetto di Casini è quello della creazione di un “centro” che diventi il vero protagonista della lotta politica nel Paese al punto di condizionare le alleanze di governo. Un centro moderato, in grado di pescare e coagulare consensi tanto a destra quanto a sinistra. Non è, a ben vedere, una pura e semplice riproposizione della vecchia Democrazia cristiana, dal momento che l’impraticabilità della strada dell’unità politica dei cattolici è ormai un dato di fatto, chiaro (forse) allo stesso Casini. La vecchia e pur gloriosa Dc era un partito, anzi un superpartito, che, attraverso le sue correnti (ideologiche o di convenienza) rappresentava, in un certo senso, la proiezione su scala ridotta dell’intero Parlamento. La sua ragion d’essere era strettamente collegata a due fatti ora venuti, entrambi, meno: sul terreno internazionale, la contrapposizione ideologica della Guerra Fredda che automaticamente espungeva dalla dialettica governo-opposizione le forze estreme e, sul terreno interno, la presenza di un meccanismo elettorale proporzionale puro (o quasi). La combinazione di questi due elementi faceva sì che la Dc potesse svolgere il ruolo di camera di decantazione delle tensioni politiche e potesse aspirare ad essere sempre partito di maggioranza relativa, disponibile, a seconda delle esigenze politiche, ad allargare l’area di governo sulla destra o sulla sinistra, per attuare una politica sostanzialmente di centro. Adesso la situazione è diversa. Bisogna prendere atto del fatto che – venute meno le ideologie – non è più pensabile un partito-spugna che, mantenendo la sua consistenza complessiva, possa dilatarsi a volontà a destra o a sinistra. E bisogna, altresì, prendere atto del fatto che il collante dei valori cattolici non è poi così forte da permettere che sulla medesima barca trovino comodo alloggiamento tradizionalisti e progressisti. Casini, per quanto convinto di essere un genio della politica (in grado di piegare le leggi della politica ai suoi desideri), queste cose non può non coglierle. E, infatti, i suoi discorsi ruotano tutti, ormai, attorno ai concetti di “centro” e di “politica di centro”, più che sul riferimento all’unità politica dei cattolici e all’idea del partito cattolico tout court . Il che, automaticamente, lo pone al di fuori e in contrapposizione al centro-destra. E lo condanna a una posizione minoritaria e a un ruolo marginale all’interno del sistema politico. L’errore di fondo del ragionamento di Casini sta nella convinzione che una “politica di centro” – cioè una politica moderata e ragionevole, una politica ispirata al buon senso o al senso comune (che è, poi, il desiderio comune alla maggioranza del Paese) – possa essere portata avanti soltanto da una formazione che si trovi, fisicamente, al “centro” del sistema politico. Le cose stanno diversamente. Una politica realmente di centro è possibile solo laddove si confrontano due ipotesi realmente alternative di governo, costrette dalla logica stessa dell’alternanza a ridurre la forbice delle promesse elettorali, a calibrare i programmi sul metro del realismo e non a gonfiarli secondo le esigenze di un continuo gioco al rialzo. Questa situazione, peraltro, è compatibile soltanto con i sistemi politici fondati su meccanismi elettorali maggioritari che portano alla semplificazione del quadro politico. Ove ciò non si verifica, il “centro” non è sinonimo di equilibrio, ma – per usare la pregnante espressione di un illustre politologo francese, Maurice Duverger – di “palude”. Una palude, vien voglia di aggiungere, mefitica, nella quale, in nome della mediazione, tutte le pratiche più illecite, tutte le contrattazioni più immorali, tutti i traffici più impudichi sono consentiti, dove la corruzione e il putridume possono trionfare liberamente. L’ansia di liberalismo


Lo “strappo” di Casini nasce probabilmente dalla constatazione che la leadership del centro-destra (oggetto delle comprensibili ambizioni di un politico in carriera) non può essere posta in alcun modo in discussione perché Berlusconi è una forza della natura che, pur con tutti i suoi difetti, ha saputo incanalare il desiderio di liberalismo e liberismo del Paese e ha saputo dargli uno sbocco concreto. Lo “strappo” diventa, quindi, automaticamente un freno all’ansia diffusa di liberalismo e liberismo che serpeggia a ogni livello della società civile. Casini, in altre parole, autoescludendosi dal centro-destra, si ritrova di fatto alleato non tanto della sinistra o del centro-sinistra quanto del vecchio e corrotto mondo della politica di una volta. Il che spiega perché egli sia fatto oggetto di apprezzamenti positivi e lusinghe da parte di chi, poteri forti in testa, non vuole nessun cambiamento e si strugge nella nostalgia dei tempi felici della Prima Repubblica; da parte di chi, una volta ottenuto l’obiettivo di bloccare il progetto di costruzione di una società liberale, sarà pronto a gettar via, come un fazzoletto di carta usato, quel genio (incompreso) della politica di nome Pier Ferdinando Casini. Il quale continuerà a consolarsi mormorando: «La politica non mi segue? Peggio per la politica».

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