La produzione in Umbria si concentrerà a Petrignano di Assisi


ANTIOCO FOIS
Lo stabilimento Mignini-Petrini di Bastia verso la chiusura, in favore di quello di Petrignano di Assisi. Il gruppo, uno dei maggiori in Italia nel settore dei mangimi di qualità, nel corso di un confronto con i sindacati (che ha avuto luogo ieri alla sede di Confindustria Perugia) ha annunciato un’operazione di razionalizzazione che comporterà la chiusura di tre dei suoi sei stabilimenti.
Bastia Umbra, Padova e Bari, secondo quanto comunicato dalla Cgil i siti che saranno oggetto del provvedimento, che coinvolgerà decine di dipendenti.
“Meno di sessanta” i lavoratori interessati dall’operazione di riduzione secondo quanto comunicato dall’azienda, “68, sui circa 160 del gruppo” per la Flai-Cgil, che ha dichiarato lo stato di agitazione e indetto uno sciopero di tutto il gruppo per venerdì prossimo, paventando “la perdita del posto per questi lavoratori, di cui circa la metà sono in Umbria”.
L’azienda, dal canto suo, replica con toni rassicuranti, spiegando che la manovra non avverrà prima di due anni e che, in ogni modo, la trattativa è ancora aperta per decidere gli ammortizzatori sociali e mediare il piano occupazionali “meno doloroso”. “La riunione odierna (di ieri, ndr) – dice Antonio Mencolini, amministratore della Mignini-Petrini che ha rappresentato l’azienda nel confronto di ieri – fa seguito ad altri incontri e informative”. Non una comunicazione a bruciapelo, quindi, di un “programma industriale che prevede di concentrare la produzione in tre stabilimenti, lasciandone aperti uno al Nord, uno al Centro e uno al Sud”. Non fa mistero del programma di chiusura del sito produttivo di Bastia, il membro del cda dell’azienda. Una misura “che dovremo operare – spiega – a causa di un esubero di personale, sia amministrativo che tecnico, derivato dalla fusione fra Mignini e Petrini” e da congetture negative del mercato che, nel particolare, inciderebbero sul settore delle produzioni zootecniche. E la contromossa sarebbe una strategia che l’amministratore chiama “piano di salvaguardia”. “Ancora non abbiamo deciso niente, né modalità, né quantum, né gli ammortizzatori sociali da applicare”, continua Antonio Mencolini in risposta all’iniziativa del sindacato, proponendo che l’azienda di mangimi è disposta a mettere in moto tutti i sistemi disponibili per la tutela dei lavoratori, “la cui attivazione vorremo decidere attorno un tavolo coi rappresentanti sindacali”. Due anni, in cui il conto delle “perdite”, insomma, andrebbe fatto al netto dei pensionamenti, delle richieste di mobilità e dei prepensionamenti; senza contare quei dipendenti che “potrebbero essere riassorbiti”.
Di diverso avviso è la Flai-Cgil, montata sul piede di guerra all’annuncio del progetto di riduzione degli stabilimenti. “Il fatto in assoluto più grave – afferma Roberto Montagner, segretario nazionale Flai-Cgil e coordinatore del gruppo Mignini – è che l’azienda si è presentata senza l’ombra di un piano industriale, che al contrario noi chiediamo da tempo. Per questo, la nostra preoccupazione non riguarda solo chi rischia direttamente il posto di lavoro, ma anche e soprattutto coloro che rimangono, perché senza piano industriale l’azienda non ha prospettive”.
Il sindacato, come detto, ha quindi deciso di aprire lo stato di agitazione e di non riavviare la trattativa “finché l’azienda non si presenterà con un progetto serio e garantendo a 360 gradi tutti i lavoratori e quindi un impatto sociale pari a zero”. Ma sul piano delle strategie aziendali il rappresentante della Mignini-Petrini si mostra intransigente: “Col sindacato siamo disposti a discutere il piano occupazionale, non quello industriale”. Nei prossimi giorni, il sindacato terrà assemblee in tutti i siti produttivi del gruppo per preparare al meglio lo sciopero di venerdì. Il dialogo, invece, è rimandato al 12-13 novembre, data in cui, comunica l’azienda, “cominceremo a prendere le prime decisioni”.

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