A Spoleto gli Indiana Jones dell’archeologia industriale non trovarono più il cotonificio


E lo zucchero diventò amaro


Resta inutilizzata l’area dello stabilimento di Foligno


Resta ancora in stand-by il recupero delle miniere di Morgnano


A Santa Maria degli Angeli è sorto il Lyrick al posto di una frabbrica



Marcella Calzolai


Raccontano ancora, gli Indiana Jones dell’archeologia industriale, di quella straordinaria spedizione al cotonificio di Spoleto. Si Ta intorno ai primi anni Ottanta, stagione ancora pionieristica in Umbria per quella “strana” disciplina. I nostri partirono armati di curiosità, passione tante buone intenzioni. Il cotonificio iveva iniziato la sua attività nel lonta 1908, appena tre anni dopo che un gruppo di imprenditori lombardi aveva chiesto e ottenuto dall’amministraione comunale, in tempi rapidi, agevolazioni tariffarie, fiscali e nella forniura di energia per l’impresa che si apprestava a realizzare. Non mancarono, a supporto dell’operazione, capitali sterni e appoggi di esponenti politici locali.
L’area individuata, 10 ettari, era nei pressi della stazione ferroviaria. Finì, come finì. Ma restava la suggestione dell’antico opificio e delle abitazioni annesse, ombreggiate (come si legge in “Spoleto” di Bruno Toscano, collana “I manuali del territorio”) da numerosi esemplari di Roverella, Pino d’Aleppo, Leccio, Robina, tutti di grande dimensioni.
Ebbene, quando gli studiosi in missione giunsero sul posto, per fotografare, schedare e progettare un futuro per la gloriosa fabbrica, trovarono cosa? Nulla: tutto già spazzato via dalle ruspe Cosa resta nella città dei Due Mondi a testimonianza della realtà industriale che fu? Un progetto, curato dall’Icsim per le miniere di Morgnano, che hanno cessato l’attività negli anni Cinquanta. Ma è da tempo confinato in un qualche cassetto del Palazzo.
Per la serie “corsi e ricorsi storici”, si fa invece un gran parlare, di nuovo, del tracciato della ferrovia Spoleto-Norcia, un collegamento attuato nel 1926 e “sepolto” definitivamente nel 1968. Ora si vorrebbe riattivare il mitico trenino, utilizzandolo a fini turistici. C’è il concorso, anche economico, di vari enti e s’intende iniziare dal recupero delle vecchie stazioni. Al momento, però, bisogna accontentarsi di ammirare la Spoleto-Norcia che fu nella mostra “Strade di carta, di ferro, di terra” allestita a Norcia nel museo della Castellina.
Ma il caso più clamoroso, in quella che più d’uno ambirebbe ancora ad elevare al rango di “terza provincia” dell’Umbria, è a Foligno. Lo zuccherificio, ai non addetti ai lavori, suona ormai come un tormentone tanto ha fatto correre fiumi di inchiostro tra discusse delibere, arroventate polemiche e contrastanti interessi. Ma non a caso.
La costruzione e l’inizio dell’attività dello zuccherificio italo-belga, tra il 1899 e il 1900, rappresenta una svolta nella vicenda economica della città. Così come la cessazione dell’attività del grande opificio segna la fase della deindustrializzazione, mentre il mancato recupero e l’assenza di progetti credibili di riutilizzazione dei quasi sei ettari su cui sorge l’impianto assumono i connotati di una svolta epocale, dalle tinte drammatiche.
Così scrive, nel catalogo regionale per i beni culturali dedicato allo zuccherificio, lo storico economico Renato Covino: “Si è alterato definitivamente un equilibrio senza che si sia riusciti ad individuare progetti credibili di riutilivazione di quei quasi sei ettari. L’apparente indifferenza della città nei confronti dei destini dello stabilimento, lo sventrato e spettrale relitto dell’edificio originario – uno dei più belli e originali esempi di architettura in: dustriale del centro Italia -. Sembrano quasi una vendetta di Foligno nei confronti di una industrializzazione desiderata, auspicata e provocata, ma anche subita e vissuta passivamente, mentre la memoria delle antiche glorie commerciali e manifatturiere si trasformava in uno stereotipo ricorrente dell’immaginario collettivo cittadino”. Si era nel 1988, lo zuccherificio aveva chiuso agli inizi degli anni Ottanta. Ma l’area, nel vecchio Piano regolatore generale, era rimasta destinata a scopi industriali. Nel frattempo si provvedeva nel capannone centrale, il più antico, a recuperare le strutture in ferro, ma essendo una struttura a capriate Polonceau, dove il ferro rappresentava la struttura portante, era ovvio che ciò la condannava ad una rapida decadenza.
Essendo l’azienda in liquidazione, non è stata possibile l’alienazione in brevi tempi dell’area e, d’altro canto, le difficoltà economiche del Comune (l’amministrazione controllata per debiti fuori bilancio) a fine anni Ottanta – inizi anni Novanta, non consentiva a quest’ultimo – anche se ne avesse avuto l’intenzione – di acquisirla. In conclusione, il terremoto ha portato   al crollo, l’acquisizione è stata fatta da privati, l’area è passata di mano in mano fino a finire alla Coop Umbria. La destinazione d’uso è centro commerciale ed abitazioni. C’è un progetto fortemente contestato per le alte cubature previste inizialmente, notevolmente superiori a quelle delle strutture dello stabilimento.
Il resto? Per l’ex centro Fiere, già Ausa Macchi e all’inizio del Novecento Fabbrica Dell’Orso, si sta procedendo alla demolizione, destinazione d’uso appartamenti. Per l’ex Fornace Fazi, ora Briziarelli, si sta tentando una concertazione pubblico-privato. Intanto, sta crollando. Le cartiere dismesse sono. grazie al terremoto, ormai ruderi, tranne quella Sordini che è ancora in attività.
I motivi di questo ansia distruttiva Renato Covino: “Sono legati al fatto che esiste un patrimonio d’altro genere estremamente ricco, ma anche al raptus costruttivo derivato dal terremoto, che ha riguardato non solo il vecchio ma anche il nuovo. Il risultato è che prevalgono le attività commerciali e di servizio e su questa vocazione c’è un accordo generale tra amministratori, notabilato economico, ecc.” Per chiudere in bellezza, eccoci a Santa Maria degli Angeli. Il primo impatto, nei pressi della stazione, è con le fornaci Briziarelli e il rischio di una nuova demolizione per lasciar posto di nuovo ad abitazioni, servizi e commercio. Ma qui è anche un confortante esempio di recupero e riuso. E’ il Lyrick . Era una fabbrica della Montecatini. Lo stabilimento, in un bel cemento armato, che voci attribuiscono addirittura ad un progetto di Nervi, è stato trasformato, per iniziativa di Mr. D. Leach, in un teatro considerato, con i suoi mille posti, tra i più moderni e funzionali. A Città di Castello Burri, ad Assisi un magnate americano… Ma il “pubblico” quando capirà che le fabbriche da rottamare possono essere un investimento?
(La prima puntata è stata pubblicata domenica 10/9)

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