di OSCAR GIANNINO
Ora che ha perso Telecom, i giudici (benedetti da Prodi) gli presentano il conto
Caro direttore, premetto a te e ai lettori che questo ennesimo articolo sulla vicenda Telecom è scritto frenando a fatica l’incazzatura. Ci sono tre aspetti diversi della faccenda, e su tutti e tre i lettori di Libero come del mio giornale Finanza&Mercati non hanno dovuto aspettare il post 11 settembre di Telecom, per leggere ciò che andava scritto per tempo. Non saremmo a questo punto, cioè sul ciglio di un baratro, se i giornaloni vicini a grandi banche e al vertice di Confindustria avessero fatto il loro dovere sui tre capitoli, invece che scoprirli ora quando è tardi, in una paradossale gara dell’ultimo minuto, e solo perché la Procura di Milano ha fatto esplodere col consueto tempismo la bomba a tempo che da anni si teneva in serbo. Le tre questioni sono assai diverse, e se si intrecciano ora in un unico dossier è solo perché l’Italia è malamente abituata da molta della sua informazione a errori uno più grave dell’altro. Non osare mai fare analisi serie sui criteri finanziari e industriali che i grandi gruppi pongono alla base delle proprie scelte, almeno finché chi li guida siede nell’Olimpo intoccabile di chi “conta” davvero. Da moltissimi mesi chi qui ci legge ha visto squadernata la vera priorità che da cinque anni a questa parte la Telecom di Tronchetti Provera ha considerato prioritaria, nelle proprie scelte finanziarie e industriali e nelle tre successive inversioni a U fatte a distanza di poco tempo, sul valore pazzesco pagato comprando all’origine, sull’opa Tim e oggi sul ritorno alla separazione tra fisso e mobile: la priorità è sempre stata l’estrazione di valore finalizzato a rendere via via meno impossibile il debito in capo a chi era socio di comando, non la creazione di valore nell’interesse di tutti i soci dell’azienda a partire da quelli di minoranza. Dirlo prima dell’11 settembre, tranne poche eccezioni condannava all’irrilevanza nel giornalismo “autorevole” del nostro Paese. Ieri e solo ieri, si è svegliato Eugenio Scalfari. Forse, se i grandi giornalisti economici badassero meno ai vincoli posti dai grandi inserzionisti pubblicitari e alle telefonate di banchieri e industriali soci del proprio giornale, e rischiassero di più la faccia criticando quando c’è da criticare – e in Telecom ce n’era a bizzeffe, purtroppo – lo stesso Tronchetti avrebbe evitato per tempo errori che oggi rischiano di risultargli fatali. L’essere al di sopra delle giuste critiche sconfina con l’impunità, ed è nell’impunità che si commettono gli errori peggiori. Il secondo capitolo riguarda invece l’invasione selvaggia di campo compiuta quest’estate da Romano Prodi con maggior violenza quanto più avvertiva che il nodo si stringeva intorno al collo di Tronchetti. E anche su questo, i nostri lettori hanno potuto giorno per giorno capire che cosa ne pensiamo, di un premier che fa preparare da banchieri amici – a tutt’oggi sconosciuti – piani di riassestamento societario di grandi aziende private quotate, nonché di esproprio di uno dei suoi asset più importanti come la rete fissa, poi li fa consegnare all’azienda a poche ore da scelte decisive, poi ancora dice di non saperne niente, rifiuta di risponderne in Parlamento, e finisce per fare la figura del nano sul terreno dell’onore rispetto al leale Angelo Rovati. Un premier acchiappa-tutto, banche e aziende, piegato però dai suoi stessi sodali prima con le brutte a riferire alla Camera, quando l’aveva escluso. E obbligato ieri a dire di sì anche al Senato, dopo che l’opposizione vi ha avuto la meglio, e la prima reazione di Prodi era stata di sprezzante diniego, delegando l’incolpevole ministro Gentiloni. Un plauso ai due presidenti delle Camere, che pur essendo entrambi fieri militanti dell’Unione nulla hanno concesso al premier . Anche su questo secondo capitolo, l’informazione si divide per tifo politico, invece che per merito delle questioni. E per fortuna ci ha pensato in questo caso la stampa internazionale, ad aggiungere il suo cannoneggiamento contro l’incredibile ritorno di Prodi nelle vesti di presidente dell’Iri e di cordate di amici banchieri. Indagini a orologeria Ma sul terzo capitolo, quello giudiziario, è veramente dura frenare la lingua. Chi qui scrive è garantista sempre e comunque, a prescindere dalla logica amico-nemico che avvelena l’Italia. Ed era ben per questo, che ho affermato da moltissimo tempo che era e resta uno scandalo, che la procura di Milano si sia tenuta per due anni e mezzo in canna il proiettile dell’indagine che aveva compiuto sulle intercettazioni illecite in Telecom. Riservandosi prima di utilizzarlo come bastone minaccioso per ottenere dalla stessa Telecom una piena collaborazione sulla vicenda Abu Omar, intercettando a tutto spiano e ricostruendo i tabulati di agenti della Cia e del Sismi. Per poi, oggi, ottenuto ciò che si voleva e che presto vedremo formalizzato nella conclusione dell’indagine che intende tagliare la testa al Sismi, e affermare il principio che in Italia le operazioni “coperte” d’ora in poi non si fanno se non sotto la guida e l’assenso del Palazzo di giustizia milanese – far brillare la mina che da mesi e mesi Tronchetti Provera sapeva di avere sotto i piedi. Puntualmente gli arresti per le intercettazioni illecite di Telecom avvengono ora che è aperto sul tavolo il nodo del riassetto e controllo societario, nel pieno delle polemiche politiche per le mani che Prodi ha cercato di calare sull’azienda, in modo da affermare autoritativamente ciò che dal 1992 è sempre stato il copione obbligato dei ribaltoni italiani: è la giustizia penale, a rivendicarne il timone, attraverso ordini di cattura e schiavettoni. Personalmente, ho scritto da mesi ciò che oggi ripeto: le intercettazioni di massa compiute in Telecom erano uno schifo gravissimo, e le difese aziendali visibilmente facevano acqua, come molte volte abbiamo documentato, ma la bomba a tempo della Procura non fa meno ribrezzo. Perché le violazioni della legge da parte dei privati sono ciò che la giustizia deve accertare e sanzionare, ma la decisione di farlo scegliendone discrezionalmente tempi e modi per ottenere le maggiori conseguenze sulle imprese stesse e sulla politica è il deragliamento di ogni idea di giustizia giusta. Tronchetti Provera lo sapeva, che l’attacco più duro gli sarebbe venuto ora che i suoi errori industriali e finanziari venivano al pettine, quello più pericoloso ancora rispetto allo stesso Prodi che lavora per rilanciare la mano dello Stato e di banche amiche su Telecom, gli sarebbe stato portato dai pm che da un anno e mezzo girano attorno alle decisioni che hanno assunto solo ora. E’ per questo che si è dimesso dalla presidenza di Telecom: così che i pm non assumano né provvedimenti limitativi della sua libertà personale, poiché non essendo più presidente non può più inquinare le prove né reiterare eventuali reati, né interdittivi della sua qualifica di amministratore, com’è divenuta temibile abitudine dopo che la legge 231 rende i pm padroni della vita, dell’operatività e dei beni di ogni impresa nella quale chiunque – qualunque sia il suo grado – sia sospettato di aver compiuto un reato. Cattive azioni da salvare. Così facendo, in questi giorni ha evitato che il titolo Telecom scendesse in Borsa sotto la soglia dei 2 euro: che è il limite oltre il quale c’è l’esplosione non più convenzionale come quella in atto, ma nucleare, poiché i covenant con le banche creditrici del gruppo sono firmati per un valore minimale dell’azione Telecom non inferiore a 1,8-1,9 euro, e se si va sotto saltano le garanzie e l’intera catena di controllo che fa capo alle scatole cinesi di Tronchetti va a farsi benedire perché nessuno le farebbe credito. Per Tronchetti, il bilancio è amarissimo. Aver dovuto leggere – solo ieri, naturalmente, ad arresti avvenuti – che il direttore di Repubblica giudica la Telecom delle intercettazioni illecite di massa un vero e proprio “cancro annidato nella vita italiana”, e per sovrammercato essersi dovuto sorbire dal fondatore Eugenio Scalfari la piena interdizione dal consorzio dei presentabili in società, addirittura con un accostamento personale a Raul Gardini, deve essere stato veramente duro per Tronchetti. A maggior ragione perché il maramaldeggiare è tanto più infamante quanto più è tardivo, e giunge addirittura a indicare un colpo di pistola suicida – ma suicida davvero? – come unico rimedio per levarsi di torno con onore. Sul ruolo di Guido Rossi, come difensore dei diritti sinora violati dei soci Telecom diversi da quelli di controllo, dell’azienda di fronte alle incursioni di Prodi e di fronte ai pm che vogliono ora influenzarne l’agenda e le scelte, dico solo una cosa. A lodarlo per i suoi mille meriti è le sue straordinarie qualità, sono buoni in tanti. Io sono bastian contrario. Proprio perché ho dato addosso alla Juventus moggiana, dico allora che il professor Rossi consulente di Olimpia con Murdoch non è che si sia comportato al di sopra di ogni sospetto d’interesse improprio, quando da commissario straordinario di Federcalcio ha appuntato la stelletta dello scudetto sul petto dell’Inter del cui vicepresidente Tronchetti era ed è avvocato.
*Vicedirettore Finanza&Mercati
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