Ipotesi di abbattimento per un piccolo complesso edilizio di Bastia Umbra

L’ abbattimento dei supercondomini Le Vele di Franz Di Salvo a Napoli e della colonia marina Sip-Enel di Giancarlo De Carlo a Riccione. Ma anche il prossimo smantellamento del complesso scolastico Marchesi di Luigi Pellegrin a Pisa e di un’ala della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Luigi Cosenza a Roma. Il mondo dell’architettura, sensibilizzato dagli accorati appelli lanciati dall’associazione “Docomomo Italia”, è in subbuglio e Piero Ostilio Rossi, dalle pagine del “Corriere della Sera” dello scorso 8 aprile, ha proclamato lo stato di allerta: la disinvoltura con cui s’interviene sulla città contemporanea, modificando sensibilmente se non addirittura cancellando irreversibilmente esempi significativi della storia dell’architettura recente (soprattutto se gli stessi non hanno raggiunto la soglia dei fatidici cinquant’anni di vita e, quindi, non sono tutelati da alcun tipo di salvaguardia vincolistica), ha superato il limite della tollerabilità. E vero che per millenni la demolizione è stata, insieme alla conservazione, un elemento fondamentale del disegno della città: per convincersene basta scorrere anche distrattamente le pagine del libro “Il progetto della sottrazione” di Antonino Terranova (Palombi Editori, Roma 1997). Ed è vero che negli ultimi anni molti litorali, come nel caso del “Paseo Maritimo” di Barcellona, sono stati ricomposti proprio grazie al diradamento controllato degli ecomostri che ne martoriavano le vedute paesaggistiche. Ma è altrettanto vero che le cose non stanno sempre e solo così. Soprattutto nel nostro paese, dove ormai le iniziative demolitore sono raramente votate a risarcire le precedenti devastazioni e comunque non sono quasi mai mosse dalla voglia di creare nuove identità, ma sono in genere ridotte a grimaldello di nuove occasioni fondiarie ovvero a volano della rendita immobiliare. E l’Umbria, purtroppo, non fa eccezione. Anche nella nostra regione, infatti, non mancano le iniziative discutibili. A cominciare dal sostanziale disinteresse per le preesistenze architettoniche dell’intorno (ancorché riferibili a progettisti di chiara fama quali Pietro Portinai e Gian Carlo Leoncilli Massi) ostentato dai piani attuativi presentati negli ultimi anni relativamente alla ristrutturazione dell’area dell’ex tabacchificio Giontella di Bastia Umbra. Disinteresse peraltro legittimo dal punto di vista normativo, ma insostenibile dal punto di vista culturale qualora fosse realmente perseguito il paventato abbattimento di un piccolo complesso edilizio, appartato quanto fatiscente, che, come non tutti sanno, vanta la paternità illustre di due maestri dell’architettura quali Renzo Piano (Genova 1937) e Peter Rice (Dundalk 1935-1992). La storia parte da lontano, sia storicamente che geograficamente, in quanto chiama in causa i drammatici eventi sismici che, nel maggio del 1976, colpirono il Friuli Venezia Giulia. Infatti, fu in occasione di un concorso bandito nel 1978 e volto a selezionare un progetto per la ricostruzione dei moduli abitativi destinati agli sfollati friulani, che lo studio associato di Piano e Rice (attivo dal 1977 al 1981) presentò un prototipo abitativo d’emergenza fondato su principi evolutivi e concepito in sinergia con l’ufficio tecnico della ditta “Vibrocemento Perugia”, all’ epoca leader nel campo della prefabbricazione edilizia. L’idea (che puntava a un prodotto a basso costo, di facile montaggio e di grande flessibilità) era semplice quanto innovativa. Ma, soprattutto, era in linea con la filosofia radical-autarchica professata da Renzo Piano fin dai tempi del “Centre Pompidou” di Parigi. Il sistema infatti, seppure rigorosamente antisismico, era fondato su tecniche di assemblaggio proprie del “do-it-yourself’. L’unità-base era in calcestruzzo armato ed era costituita da una struttura tridimensionale a “C” che, una volta sovrapposta a un’altra unità, definiva un modulo spaziale quadrato (6 metri per 6 metri), che era al tempo stesso pavimento, soffitto e parete laterale. E che, sui due fronti principali, era tamponato da due grandi finestrature scorrevoli su binari disposti longitudinalmente. Mentre la scala interna, al pari dei pannelli che costituivano il solaio intermedio e le partizioni interne, era di legno ed era portata da una struttura leggera in carpenteria metallica. Ma non era finita qui. L’apparente banalità tecnologica, infatti, era riscattata (e in qualche modo nobilitata) dalla vocazione utopica che animava l’idea progettuale. Perché, secondo le intenzioni originarie di Piano e Rice, ciascun utente avrebbe avuto diritto all’assegnazione di una casa-base, ampliatile fino a un massimo di 120 metri quadrati o riducibile fino a un minimo di 50 metri quadrati in base alle esigenze familiari contingenti. In che modo? Semplice: prelevando i pezzi mancanti o depositando i pezzi in esubero in un laboratorio di quartiere gestito collettivamente. Seppure scartato dalla giuria concorsuale proprio per i suoi presunti limiti ideologici, il prototipo ideato . dall’Atelier Piano & Rice piacque al partner industriale ed entrò comunque in produzione. Ma, prima di essere utilizzato (e, purtroppo, banalizzato) a Corciano nell’ambito della realizzazione del quartiere residenziale Il Rigo, venne ripensato nella primavera del 1979 come modulo abitativo sociale destinato all’ex Gruppo Famiglia (ora Unità di Convivenza) di Bastia Umbra. Laddove, per garantire un’habitat adeguato all’occasione, fu arricchito con uno spazio all’aperto progettato da Piano e Rice in ogni dettaglio: dalla scelta delle essenze arboree (un boschetto di betulle) al posizionamento del camino (previsto al centro del patio) fino all’organizzazione del giardino (destinato a orto). Questo perché, in linea con i principi ispiratori della Legge Basaglia, che chiudeva per sempre le porte dei manicomi e metteva fine alla pratica delle terapie invasive, l’idea di Piano e Rice voleva sperimentare una forma insolita di struttura ospedaliera psichiatrica. Anche per questo varrebbe la pena non arrendersi di fronte a eventuali pressioni demolitorie. Non a caso Carlo Rossi, studente in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio nell’Università degli Studi di Perugia, ha setacciato l’archivio del “Renzo Piano Building Workshop” di Genova e sta dedicando la propria tesi di laurea al rilievo (e quindi alla conoscenza profonda) di una componente importante del patrimonio edilizio regionale. Non solo dal punto di vista della storia dell’architettura.

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