Intervista al protagonista della “lectio” di domani sera al Lyrick
BASTIA UMBRA – Philippe Daverio (nella foto) è l’ospite d’onore del Lyrick domani alle ore 21,30 con la sua “lectio” sul tema “Critica al pressapochismo come matrice della cultura contemporanea”, evento promosso da Oicos Riflessioni, l’associazione di Bastia Umbra, con la facoltà di Ingegneria civile e ambientale dell’Università degli studi di Perugia. Cos’è il segno del contemporaneo nell’arte? “Non esiste. Se c’è una caratteristica dell’epoca attuale – ribatte Daverio – è che il concetto di contemporaneità è scomparso. Esiste un concetto di attualità dell’arte, mentre il concetto di contemporaneità dell’ arte è del tutto obsoleto, funziona solo nell’ambito delle catalogazioni commerciali e museali. Quello che intendo dire è che oggi tutto è contemporaneo”. Nel 2003 tenne un corso alla Iulm “Strumenti e concetti per orientarsi nel contemporaneo, le avanguardie del XX secolo”. Può darci una – delucidazione su questo tema? “Lì si parlava della fine delle avanguardie. Oggi sono concluse. Questo argomento è complesso e interessante, ne parleremo nella conferenza ad Assisi; per ora vi posso dire che le avanguardie sono considerate un dato oggettivo e stabile mentre nella realtà dei fatti sono evaporate quando è evaporata la società di massa per essere sostituita dalla società di popolo trasversale, che sarebbe la società attuale. Nel mondo di massa una quantità elevata di persone seguiva lo stesso percorso nello stesso momento. Alle sette del mattino entravano in fabbrica quindicimila persone sulle stesse biciclette. vestite Quasi nello stesso modo che si fermavano a mezzogiorno per mangiare lo stesso cibo. Oggi non è più così. E in questa anarchia non c’è la possibilità di generare una avanguardia perché l’avanguardia ha bisogno dell’altra sua parte dialettica che è la massa. Non si è avanguardia in astratto, ma lo si è rispetto ad una massa”. Oggi però si parla di una nuova massa composta da spettatori televisivi… “No, non esiste neanche la massa degli spettatori perché ognuno di quelli sta andando nella propria direzione. La società di massa esisteva quando la stessa sera tutta l’Italia guardava Lascia o raddoppia. In una cultura dove la comunicazione è costantemente conflittuale non si ha più una massa, si hanno dei comportamenti somatici ma che non formano un insieme omogeneo. La fine di questa società massificata sta determinando dei nuovi parametri. Mentre prima veniva generata una avanguardia, adesso la società di popolo genera o delle élite o dei tribuni popolari. Si formano così dei nuovi linguaggi, quindi nuovi parametri, all’interno di queste élite”. Nell’aprile scorso si è tenuta l’inaugurazione della chiesa di Fuksas a Foligno. Un inserimento da alcuni ritenuto non adeguato all’ambiente. Qui entriamo nel vivo della contemporaneità e dell’architettura contemporanea … “Qui non si parla di contemporaneità, semmai di attualità. C’è da fare una distinzione. Oggi la critica avviene perché la gente considera contemporaneo anche l’edificio basilicale di san Francesco, perché quello gli è contemporaneo, cioè è più vicino al suo vivere quotidiano piuttosto che l’edificio di Frank Gehry a Bilbao perché non lo ha mai visto; la contemporaneità è ciò che noi assimiliamo, quindi per noi è contemporanea, se viviamo li, la Basilica di Assisi, piuttosto che la chiesa di Fuksas. In questa contemporaneità complessiva come facciamo ad inserire degli elementi nuovi? Gli elementi nuovi sono in grado di aprire un dialogo. Ora il punto è vedere in che misura il dialogo è apribile o non è apribile”. Neanche il tempo potrà sanare questa incomunicabilità, questa spaccatura? “Certamente. Il tempo comincerà a generare delle assimilazioni prima di tutto culturali, diventerà naturale ciò che fino a ieri non lo sembrava, poi probabilmente nasceranno delle “medicazioni” dell’ambiente, delle “chirurgie plastiche”, degli equilibri, che saranno quelli che ci salveranno nella nostra lettura dell’opera”. Lei nel 2004 fece una conferenza a Perugia intitolata “L’umbricità ovvero estetica della riva sinistra del Tevere, da Burri al Perugino”. Ritenere che esista una identità territoriale e su questo poi costruire le avversità al nuovo non è questa una volontà di determinare a tutti i costi la propria identità? C’è una identità nostra, specifica di ogni luogo? “Certo che c’è una identità, c’è in quello che mangiamo, nella lingua, negli accenti. Noi accettiamo l’identità negli accenti, della lingua e poi ci dimentichiamo di accettarla nell’architettura, perché?”. Ma non è una identità che muta? O è sempre se stessa immutabile? La stessa lingua non è una lingua ferma, il paesaggio non è un paesaggio fermo. “Però lei parla ancora italiano, non parla in danese in questo momento”. Ma diverso da quello di venti anni fa. “Sì, ma figlio di quello di venti anni fa, non figlio dell’inglese o di internet”. E quanto questa identità deve essere accettata come mutante e quanto conservata? “E’ la vita stessa che muta le identità. La lingua, le identità, mutano costantemente perché è viva, ma è viva in base alle proprie radici non in modo astratto”. Quindi lo stesso paesaggio, tornando a Fuksas, la stessa urbanistica, la stessa architettura ha una sua vita? “Certo, lentamente abitueremo l’occhio a vederla, vi costruiremo cose intorno, prenderà un ritmo paesaggistico sintonico e a quel punto sarà a posto, verrà riconosciuta senza problema”. La sua conferenza domani si svolgerà al Lyrick” . Questo teatro è una vecchia fabbrica Montedison quindi una struttura architettonica riutilizzata da fabbrica a teatro, un manufatto riadattato, rivisto, in un epoca diversa. Cosa può dirci di questo? “E’ tipico della cultura peninsulare. La cultura Italiana ha sempre preso i manufatti e li ha trasformati. Noi siamo il paese dove la tomba di Adriano è diventata fortezza nel Medioevo, roccaforte nel Rinascimento, poi è diventata galera e oggi è un museo. Noi siamo dei metabolizzatori dell’architettura, questo è un tipico esempio di come funziona la nostra lingua dell’architettura”. Anche la città è un organismo metabolizzante? “Certo. Noi stiamo inventando un assetto nuovo con una lingua che però è la nostra. Possiamo inserire una o due parole in inglese quando non le abbiamo, tipo “whisky” è difficile chiamarlo distillato di malto e grano, invecchiato con l’affumicatura, però in realtà sul resto del nostro linguaggio andiamo avanti con quello che abbiamo sempre utilizzato”. Qual è il suo messaggio rispetto a questa difficoltà di riuscire a trovare uno spazio per l’architettura contemporanea in Italia dove si è sempre restii all’innovazione in quanto gli spazi sono già occupati dall’antico? “Il compito della nuova architettura è proprio quello di inventare lingue nuove, di averne il coraggio”. Cos’è il “pressappochismo”? “Affrontare questi temi in modo cialtronesco, dicendo: io non ne so niente ma intanto direi che…”. Quindi “ciò che non si sa, si deve tacere”, forzando una famosa frase del filosofo Wittgenstein. Questo raccomanda?
“No, seminai ciò che non si sa… si deve studiare”.
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