di VITTORIO FELTRI
Da mercoledì troverete in edicola insieme a Libero «Tutte le tasse di Prodi & C.», nuovo libro della collana «Manuali di conversazioni politica» curata da Renato Brunetta e Vittorio Feltri. In oltre 300 pagine i massimi esperti di economia ci spiegano tutti i segreti della «finanziaria contro gli italiani» varata da Prodi. Ecco la prefazione di Vittorio Feltri. Lo spettacolo della finanziaria in Parlamento è stato un fuoco d’artificio di tasse e controtasse, balzelli col botto, fluorescenze di gabelle. Qui le raccontiamo tutte. Riusciamo a proporre un libro sulle tasse che è persino divertente. Divertente da leggere, sia chiaro. Se fossimo stranieri godremmo, ma siamo italiani, e a me è scappata una lacrimuccia. Di tasse ce ne sono più di quanto s’immagini, e forse ce n’è persino sfuggita qualcuna. Però finalmente ci ho capito qualcosa. La materia è ostica, respingente. Se capitano tra le mani inserti a stampa su imposte e affini, mentalmente si passa l’involto al commercialista, sicuri peraltro che anche lui sbaglierà qualcosa e si finirà pelati due volte: dalle aliquote e da qualche codicillo mal interpretato. Succede sempre. Stavolta però abbiamo un filo per affrontare il labirinto. “Tutte le tasse di Prodi & C.”, che si avvale delle provvide cure del professor Renato Brunetta e della funambolica competenza di Davide Giacalone, ha due effetti. Il primo è incantatore. La prosa è quella di un avvincente reportage. Il secondo è la incazzatura. Perché la tribù tiranneggiata dalla banda prodiana non è una etnia amazzonica in balìa dei fazenderos, ma è questa nostra Italia sventurata. Siamo governati da uno che ci dà dei pazzi – testuale – solo perché facciamo fatica a essere contenti di essere strozzati. Giacalone, come ho appena scritto, è un maestro. Spiega a noi, poco avvezzi a delibare i tecnicismi parlamentari, come si sia sviluppata una finanziaria la quale esprime tutta la filosofia di questa sinistra. Essa è lo strumento per arrivare, con colpi d’ascia fiscale, a spezzare il corpo sociale in due categorie: 1) ricchi 2) poveri. 1) La prima categoria è da sfoltire. Viene prima incolpata del suo presunto benessere quasi fosse esito di una rapina (una rapina che si chiama lavoro). Ricchi poi per modo di dire, definiti tali perché dotati di partita Iva o di seconda casetta al mare. In quanto ricchi, tali italiani sono assegnati alla schiera degli evasori fiscali. La ricchezza dunque non come prova di benedizione divina o come conseguenza della gerarchia dei meriti. Errore. La ricchezza è intesa quale frutto di meschinità morale. A meno che, ovvio, la grana e la barca non derivino dall’appartenere ai salotti buoni o alla schiera dei manager di sinistra. 2) La seconda categoria sono i poveri. La povertà è vista come ideale di vita. Essa però non consiste nella quantità di reddito, ma nel modo di ottenerlo. Importante è non essere un piccolo imprenditore o un artigiano. Puoi anche essere farmacista e avere un alto stipendio: purché sia, appunto, un salario, e non ci sia libera iniziativa. Se sei uno statale e sei pure fannullone, guai a toccarti i privilegi, sei povero e santo. C’è stato un bel manifesto proposto dai comunisti sui muri delle città italiane per avvisare l’arrivo del loro bengodi: “Anche i ricchi piangano”. Qui l’intenzione della sinistra padrona dellamaggioranza è limpida: lo scopo non è di star tutti meglio, ma di livellarci al peggio. È il trionfo dell’invidia sociale, l’unico vizio che non dà neanche un briciolo di piacere a chi lo pratica. Vuoi mettere l’ira o la lussuria, la gola o l’avarizia? Sono virtù rovesciate che danno le loro soddisfazioni. L’invidia invece è grigia in origine e si unisce al pauperismo cattolico che condisce la miseria con grida di giubilo. In questo pattume incolore emergeranno i kapò, come nei palazzoni sovietici. Che Italia è questa? Esagero? Vorrei. Ma fa impressione la sequenza dei danneggiati da questa finanziaria prodiana. Piccole imprese, professionisti, ma anche pensionati, lavoratori e risparmiatori. I particolari li trovate nel libro. Lo scopo è di arrivare alla fine ad avere due sole categorie di cittadini. Non più ricchi e poveri. Ma nobili e plebei. a) I nobili. È la classe alta ma pura, fatta dai banchieri del salotto buono, dai loro amici politici e dai manager di multinazionali. Gli intellettuali sono benvenuti insieme coi cineasti ai vari festival. Sono buoni qualunque cosa facciano, perché vale per loro l’appartenenza al ceppo marxista. Idoli Norberto Bobbio e Michele Serra. b) I plebei. È il ceto proletario, costituito da dipendenti dello Stato, delle multinazionali o delle Coop. I piccoli e medi imprenditori, i farmacisti e i commercianti in proprio sono stati nel frattem ipo eliminati dalla scena. È prevista la gita collettiva in bicicletta, il viaggio in pullman a Roma per la benedizione di Prodi e la marcia dei pacifisti con Bertinotti. Ogni tanto i rappresentanti delle due categorie si ritrovano assieme per manifestazioni contro il fascismo sempre risorgente e per protestare contro Pansa, che va sempre bene. Intanto godiamoci almeno il volume, onde prepararci ad evitare lo scempio facendo cadere il governo. Non mi illudo della piazza. Quella di destra non è capace di incendiare niente, per fortuna: altrimenti sarebbe di sinistra (io non scordo mai che fascismo e nazionalsocialismo nascono a sinistra). Per cui dobbiamo sperare nell’implosione di questa Unione in cui convivono gli opposti, i quali non sempre troveranno la rima del potere per evitare di scannarsi: il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Mi rendo conto che dopo un luogo comune del genere, uno dovrebbe avere l’umiltà di finirla. Ma ci vuole la morale della favola. Ed è questa. C’è qualcosa di peggio delle tasse. Sono i moralisti dell’erario statale. Noi non ce l’abbiamo con il Professor Mortadella perché vuol far pagare le tasse agli italiani. Gli evasori non ci piacciono. Ma è insopportabile il razzismo di chi tratta il prossimo come fosse un ladro perché ha la villetta con i nani in giardino e si è permesso il fuoristrada, magari per non essere bloccato dalla neve in collina e andare lo stesso a lavorare d’inverno. Con Prodi l’invidia di questi moralisti è andata al governo. Togliamocela dai piedi.
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