LA STORIA

BASTIA UMBRA Ha alzato una mano, mimando un pugno che non è mai partito. E per questo è stato condannato per minacce a una multa di 300 euro, più 2.200 euro per risarcire il danno alla persona a cui era rivolto il gesto. Ma lui, un 67enne di Bastia, non ci sta. E contro quella sentenza del giudice di pace piuttosto spende i soldi del ricorso, ma i soldi non li dà. Perché è convinto sia stato solo un gesto di «disappunto», niente di minaccioso in quella mano alzata, ma soltanto uno «sfogo» durante un litigio per dei lavori in un condominio. Così l’uomo, assistito dall’avvocati Gianni Dionigi, ha fatto appello contro quella sentenza del luglio scorso, ribadendo i motivi per cui ritiene di non dover essere condannato. Una storia che va avanti dal 2020, quando il 67enne, durante un’accesa discussione ingiuriò davanti a testimoni la presunta vittima, tra parolacce e insulti. Reato, depenalizzato, per cui è stato assolto, restando in piedi solo l’accusa dell’articolo 612 del codice penale: «minacciava il medesimo di un male ingiusto, ponendoglisi avanti caricando il braccio allungandolo ed allargandolo dietro la spalla con la mano serrata a pugno, non colpendolo per l’intervento di terzi». «Non si discute circa l’esistenza o meno del gesto, il quale veniva confermato anche dai testimoni si sostiene nell’atto d’appello -. Ciò che richiede un accertamento ben più approfondito è l’idoneità del gesto a scaturire nella vittima la reazione di spavento e irrequietezza che ha avuto, tenendo conto della posizione della persona offesa, costituita parte civile, portatrice di interessi economici nel procedimento». Mentre anche i testimoni non avrebbe avuto contezza della minaccia del male ingiusto, spiega l’avvocato Dionigi: «Pertanto, non si può deporre a favore dell’univocità del gesto il quale, ben più semplicemente, manifestava un semplice sfogo dell’imputato alle provocazioni» del denunciante. E la frase che avrebbe accompagnato il gesto («Ti do uno schiaffo») sarebbe stata una «mera coloritura» di quel braccio alzato. Per non parlare di quel «Non finisce qui» che per il 67enne non aveva «una connotazione univocamente minacciosa potendo alludere semplicemente al voler proseguire la discussione in un altro momento ovvero alla volontà di tutelare i propri diritti in sede giurisdizionale». Dove è finita comunque la lite, in attesa di nuove decisioni del giudice.

Egle Priolo

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