Bastia

Lettera a Oriana

 di VITTORIO FELTRI


Cara Oriana, ho un po’ di rimorso. Domenica scorsa, quando mi hai telefonato a Bergamo dal letto della clinica di Firenze, e ho udito la tua voce affaticata, mi sono detto: sta peggio del solito, devo andarla a trovare presto. Ci siamo messi d’accordo: vieni entro la settimana, prima che puoi. Hai avuto ragione ancora tu. Sarebbe stato necessario che mi spicciassi. Invece per un motivo o per un altro ho indugiato, indugiato troppo. Adesso sono costretto a scriverti; e lo faccio con imbarazzo, scoprendo di essere maldisposto a usare questo mezzo, le parole stampate (che non consentono di sbracare) per dirti alcune cose. Avrei preferito chiacchierare in poltrona, l’uno davanti all’altro col bicchiere di vino in mano, come l’ultima volta in casa mia, qui a due passi da Libero. Era il 29 giugno, giorno del tuo compleanno. Avevi lasciato New York da circa tre settimane. Un viaggio massacrante per una signora pelle e ossa eppure con lo stesso temperamento di quand’era ragazza. Lo avevi affrontato con grinta: non posso più rimandare la trasferta a Milano; occorre che sistemi i conti con il Corriere, ho contratti da rinnovare, diritti d’autore che non so neppure a quanto ammontino; non ritiro da secoli un soldo, vivo con poco io, non mangio nulla, guarda te come sono ridotta. Ciò che mi deprime è che son mezza cieca, anzi quasi per intero. Vorrei lavorare e non ci riesco; per buttare giù dieci righe mi ci vuole un quarto d’ora. Oriana, tu parlavi così. Cominciavi con un argomento, poi di digressione in digressione, sfiorando tutto lo scibile universale, piombavi sempre lì, in via Solferino. Quel Mieli mi fa arrabbiare. Le vicende che mi riguardano le mette sotto titoli piccini piccini. Mi nasconde perbenino. E non farmi dire di Marchetti. All’inizio l’era tanto gentile; all’improvviso non l’ho sentito più. Scomparso. Se gli telefono si fa negare. Non li capisco. Hanno i miei libri e non li sfruttano. Hanno me e mi trascurano. Penso che tu esagerassi negli sfoghi. Guai se te l’avessi detto. Se ti contraddicevo ti infiammavi, e chi ti spegneva più? Ricordo quella volta che ti riferii un discorso di Mieli. Lui mi aveva detto: la Fallaci è un fenomeno, se vai in giro per il mondo, in ogni luogo, il più remoto, e conversi con qualcuno ti accorgi che dell’Italia non sa nulla, tranne che la Fallaci è italiana, come Dante e Michelangelo. Nient’altro. Mi ascoltasti scettica, e mi interrogasti. Per davvero ha detto in questa maniera? Ti giuro, proprio così. Allora lo ha detto per sfottere: per sfottere me e te. No Oriana, era serio. Ma ma ma non essere grullo… suvvia, Vittorio. Non c’è stato verso di farti cambiare idea. Se ti fissavi su una cosa eri irremovibile. D’altronde litigare con te era rischioso. Parlavi come scrivevi, eloquio travolgente, un torrente. Il giorno che ti conobbi mi tremavano le ginocchia. Mi avevano avvertito: guarda che non è un soggettino facile. Stacci attento. Se si incazza non la fermi più. Dirigevo l’Europeo dove tu eri diventata Oriana Fallaci. Era appena uscito un tuo romanzo, Insciallah, e mi sarebbe piaciuto intervistarti. Campa cavallo. Non ti fidavi. Non ti fidavi di nessuno, figurati di me. Non so perché, frequentandomi ti sgelasti. Ci recammo insieme a Pontremoli, per il Bancarella, a Messina per un premio e rammento che a un certo punto ti scocciasti per una parola storta pronunciata da un pirlacchione emozionato davanti a te e, quindi, in stato confusionale. Non ti sei mai resa conto di intimidire la gente. Una mattina mi telefonasti: sicché la si fa o no quest’intervista? Sì che la si fa. Ti aspetto a Roma. Grand Hotel Excelsior. Domani ti raggiungo. Avevo le domande bell’e pronte. Ma fu un disastro. Non ti persuadevano. Cambiale. Come? Arrangiati, sei tu l’intervistatore. Vabbé, ma se non ti vanno, concordiamone di nuove. Sono impegnata. Domani si va a Firenze e si fa la cosa. Intanto preparati. Madonnina del Carmine quanto tribolare. Il tuo appartamento fiorentino fu riempito di fumo, una camera a gas. Mi davi una risposta, poi ti pentivi e me ne davi un’altra. Modifiche, ripensamenti. Da impazzire. Ti accorgesti che stavo scoppiando e proponesti una pausa: si mangia un boccone? Comparvero una scatola enorme di caviale iraniano, verde, e una bottiglia di champagne. O te, l’è tutto qui, altro non c’è. Ciucchi di caviale, sigarette e champagne riattaccammo col lavoro. Un lavoro infinito, massacrante. L’indomani riscrissi tutto a modo mio e ti sottoposi una dozzina di cartelle dattiloscritte. Non terminavi mai di leggere. Dieci minuti ogni cartella. Che strazio. Accavallavo e scavallavo le gambe. Allentavo il nodo della cravatta. Mi prese un’inquietudine folle. Temevo fosse tutto da rifare. Invece riordinasti i fogli picchiettandoli sul tavolo per prendere tempo e preparare il verdetto: non è un’opera d’arte però sta in piedi. Ci feci la copertina. Una foto tua stupenda in bianco e nero, il titolo in rosso. Quando uscì eri contenta. Contentissima quando ti dissi che quella settimana l’Europeo aveva stravenduto. Diventammo amici. Mi telefonavi da New York e spesso ti chiamavo io. Una notte mi domandi: che ne diresti se andassi alla guerra per raccontare la battaglia di terra in Kuwait? Ho già voglia di leggerti. Sto organizzandomi. Parto. Certo è un bel rischio. Quando si va alla guerra c’è un solo rischio, quello di morire. Il guaio è che nel deserto, in guerra, la morte sotto le bombe non è garantita; si può crepare molto lentamente, di cancro. E così è stato per te Oriana. Quella nuvola nera che scese sulla sabbia e ti avvolse. Un anno dopo fosti operata di cancro. Anch’io ebbi una botta alla salute. E non ci sentimmo più. Un paio di lustri di silenzio che tu interpretasti come un disgusto mio per il tuo tumore. E io come un segnale tuo di disapprovazione per la mia decisione di lasciare l’Europeo in favore dell’Indipendente, prima, e del Giornale più tardi. È stato Libero a farci rincontrare. Che ti andava a genio, e lo hai aiutato regalandogli – e sottolineo regalandogli – vari scritti. Cara Oriana, se siamo riusciti a superare centomila copie, lo scorso anno a ferragosto, lo dobbiamo a te, a un tuo articolo. La tua capacità di compiere miracoli editoriali è direttamente proporzionale all’odio e all’invidia che suscita. Dicono che il successo rende simpatici; nel tuo caso mica tanto. Forse perché eri donna, più montava la tua notorietà internazionale e più montava un risentimento cretino verso di te in chi non era capace di essere alla tua altezza. Non ti hanno ancora perdonato il talento e la forza di volontà, che poi erano il segreto della tua fenomenale bravura. Mi sono sempre chiesto perché avevi scelto di vivere negli Stati Uniti pur non amandoli. Tanto è vero che, arrivata alla fine, sei rientrata in Italia. Dal 2000 a domenica scorsa abbiamo conversato ogni week end. Mi ero talmente abituato ad ascoltare le tue dissertazioni sulla malattia che a un certo momento non mi impressionavano più. Roba da matti. Si discuteva mezz’ora di Islam, di terroristi, di Corano, di giornali, di letteratura e di politica, quindi bruscamente dicevi: basta, ti saluto perché devo morire io, ho sette cancri io. Poi i cancri sono aumentati: ho otto cancri io. Poi sono saliti a nove, a dieci, undici. Scusa se te lo dico, ma questo tuo modo di fare mi ha indotto a dubitare che tu fossi grave. Mi piaceva pensare che scherzassi. Non capita tutti i giorni che una ti dica: ora basta, taglio ‘sta telefonata perché devo morire. Anzi, guarda: io a questa cosa qui non ci ho mai creduto finché una sera mi hai reso partecipe di un problema: volo in Italia per bisticciare con quelli del Corriere; ma non so dove andare. Come non sai dove andare? Non ho un alloggio. E in albergo non ci vo’ nemmeno dipinta, non desidero che mi riconoscano e mi importunino. Mi manca poco a morire. E dagli con ‘sto morire. Ascolta, Oriana. Se ti va ti offro casa mia. Io ne ho un’altra. Non era vero che ne avessi un’altra. Mi sono arrangiato in quella di amici. Quando ti facevo visita mi scappava da ridere e veniva da ridere anche a te: entravo in casa mia e mi comportavo come fosse stata tua. Mi dicevi: accomodati. Venti giorni così. Un pomeriggio ti ho accompagnata dal salumiere. Camminavi lentamente. Il respiro affannato. Ho realizzato che avevi sul serio undici cancri e che dovevi morire. Purtroppo ancora una volta hai avuto ragione. Ciao.


 

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