Bastia

“Larte fra sacro e tragedia”

A colloquio col filosofo che nella sala deI consiglio comunale di Bastia ha incantato la platea
L’incontro promosso dall’associazione “Oicos riflessioni” è stato trasmesso in web-tv


FRANCESCO CASTELLINI
Bastia Umbra


“Filosofia e tragedia”.
E’ questo il tema dell’incontro con il professor Sergio Givone, promosso dall’associazione “Oicos riflessioni”, tenutosi presso la sala del consiglio del municipio di Bastia.
Numerosissimo il pubblico intervenuto alla conferenza, questo anche grazie ad una campagna di informazione capillare che si è servita di Facebook e soprattutto, per la prima volta nel campo degli incontri di filosofia, della web tv www.inschibboleth.org che ha seguito in diretta l’iniziativa. L’incontro ha dimostrato che il bacino di utenza di Oicos, perseguendo la sua vocazione originaria, si sta progressivamente ampliando. All’incontro di Bastia Umbra erano presenti spettatori provenienti da varie città d’Italia tra cui Forlì, Pescara, Firenze, Roma, Siena, Arezzo.
Tutti i prossimi incontri di Oicos saranno visibili on line sui siti: www.inschibboleth.org (progetto cui aderiscono tra gli altri Massimo Cacciari, Luigi Berlinguer, Remo Bodei, Roberta De Monticelli), www.oicosriflessioni it www bastianotizie.it e www.bastia.it. La collaborazione tra Oicos, Inschibboleth e Com Com si concretizzerà ben presto nella messa on line, a breve, di tutte le conferenze registrate dal 2005 ad oggi, con possibilità quindi di consultare, a richiesta, gli archivi video di Oicos.
Tornando a Sergio Givone, da sottolineare che il professore è ordinario di Estetica presso il dipartimento di Filosofia del-l’università di Firenze. Particolarmente significativi sono i suoi lavori su Dostoevskij.
Di interesse anche la sua opera narrativa in cui forte è ancora il richiamo filosofico e l’impronta della letteratura russa. Givone è inoltre collaboratore assiduo del quotidiano la Repubblica. La conferenza si è addentrata nelle pieghe dell’inesplorato rapporto tra tragedia e filosofia. Secondo Diogene Laerzio, Platone, prima di dedicarsi alla filosofia, bruciò la tragedia composta davanti al teatro di Dioniso.
Il rogo del tragico costituirebbe l’iniziazione del filosofo: se il tragico è il regno del conflitto, della morte ambiguamente intrecciata alla vita, il filosofo che osserva il lieto dispiegarsi delle idee, che addita il sommo Be-ne non può che rigettarla. O tragedia o filosofia, sembra dire Platone. Per secoli una sorta di interdetto cade sulla tragedia. Eppure, prima con Kierkegaard, poi con Nietzsche, la tragedia torna ad essere cruciale per la filosofia. Con Kierkegaard: la morte di Cristo è la più alta tragedia.
Il dolore non oltrepassabile resta custodito dal dio che muore e risorge: la crocifissione diventa il luogo del paradosso tragico. Il cristianesimo di Kierkegaard si comprenderebbe insomma solo attraverso un pensiero che Givone definisce pensiero tragico. In questa prospettiva il tragico sarebbe dunque essenziale per il religioso. Ma non solo; il tragico, secondo Givone, rende comprensibile anche il nichilismo. Per Nietzsche, da La nascita della tragedia fino ai biglietti all’amico Peter Gast nei quali si firma “il Crocifisso” oppure “Dioniso”, il tragico è l’essenza di quella scelta che dice “sì” al dolore, “sì” anche al cerchio demonico dell’eterno ritorno dell’identico.
Nell’incontro in programma condotto da Giancarlo Baffo e Lorenzo Chiuchiù, Givone ha usato la sua dialettica per attualizzare la riflessione ponendo il focus sulle relazioni che ai giorni nostri si intessono tra filosofia e tragedia. Il professore, di fronte ad un pubblico davvero ammaliato dalle sue parole ha risposto a varie domande, alcune rivoltegli da Lorenzo Chiuchiù e di queste ne riportiamo parte.
Professore può l’arte essere il luogo privilegiato che rivela il pensiero tragico?
“Il pensiero tragico è certamente caratterizzato da determinati contenuti etico-religiosi (il male, la colpa, l’espiazione) e metafisici (la necessità, la libertà), eppure non è tragico quel pensiero che pensa il tragico ma quello che pensa tragicamente (qualsiasi cosa pensi). Insomma, una questione di accento, d’intonazione. Che cosa voglio dire con ciò? Che il pensiero tragico getta sul mondo e sulla vita uno sguardo obliquo, straniante, quello che un tempo si diceva fosse lo sguardo della Sfinge. Non pretende di dirci che cos’è la vita e di rispecchiarne la verità oggettiva. Cerca invece di far venire alla luce il suo senso misterioso e inoggettivabile. Non temendo i paradossi più estremi e sfidando le contraddizione che sono nel cuore della realtà. Perciò l’arte non può che essere il luogo privilegiato del tragico: l’arte non è mai rispecchiamento, ma sprigionamento di una luce che ci fa vedere le cose come ancora non le avevamo mai viste”.
Cosa è per lei il romanzo? Perché alcuni grandi filosofi (il suo maestro Pareyson, ed esempio) hanno interrogato i grandi romanzieri come se fossero filosofi, come se nella finzione si trovasse la verità?
“Più di qualsiasi altra forma d’arte il romanzo è finzione: perfino più della pittura o della scultura. Il romanzo finge che sia accaduto ciò che non è mai accaduto (o che se lo è, lo è come se qualcuno se lo fosse inventato, vedi il romanzo storico). Perché il romanzo finge eventi e situazioni? Ma perché fingendo attinge alla verità, mettendo ordine nel caos dell’esistenza, costruendo ipotesi e magari traendo conclusioni, in ogni caso facendo lampeggiare un senso possibile. E’ così che funziona, come ci aveva già spiegato a suo tempo il grande Giambattista Vico. Gli uomini diventano uomini, cioè escono dallo stato di natura e dalla barbarie, raccontandosi sempre di nuovo la loro vita. Se la “contano”, per l’appunto, e quindi inventano qualcosa che non è mai stato veramente. Ma in questo modo si liberano dall’antica soggezione alla brutalità della natura. E che cos’è più vero? “Che cosa esprime meglio la verità dell’umano? Il fatto che l’uomo è un bruto o il fatto che l’uomo deve diventare uomo? Ecco, i romanzi mettono in gioco la verità intorno alla nostra condizione e di conseguenza sono il pane quotidiano della filosofia. Allora diciamo così: questo pane a un certo punto io ho deciso di farmelo in casa invece che limitarmi a comprarlo dal panettiere”.
Uno dei nodi del suo ultimo romanzo, “Non c’è più tempo” (Einaudi), è l’idea di sacrificio. Cosa è il sacrificio per un filosofo romanziere come lei?
“Sacrificare significa rinsaldare il patto originario (il “giuramento”) che lega l’uomo e Dio. Come avviene questo? Anzitutto, attraverso il riconoscimento che c’è qualcosa di intangibile e quindi di sacro. Questo qualcosa è il giuramento stesso. Tutto il resto può essere sacrificato, vale a dire reso sacro nel momento in cui viene offerto alla divinità in nome del patto originario. Il sacrificio è praticato da tutte le società arcaiche. Ma inaspettatamente lo troviamo anche nelle pieghe della nostra società, in tante forme. Una, la più inquietante, è quella che è tipica del terrorismo: dove il terrorista viene sacrificato all’idea o all’ideologia dai suoi compagni per rinsaldare il patto di sangue che li tiene uniti (com’è accaduto negli anni Settanta) o do-ve il terrorista decide di sacrificarsi per la causa (come accade oggi)”.
Camus diceva: quando scrivo mi accorgo che in me c’è qualcosa più forte di me. Anche per lei la scrittura a volte prende strade inaspettate?
“Non conoscevo o non ricordavo quella citazione di Camus. E’ perfetta. Sì, la scrittura costringe lo scrittore a prendere atto che qualcosa gli si impone. Bisogna però andare a caccia di questo qualcosa. E’ una lunga preparazione, un difficile ascolto. Poi arriva il momento. E non resta che scrivere”.

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