Bastia

la crisi inventata

di Vittorio Feltri


Il problema non è aver vissuto tanti, troppi Ferragosti, ma averne di meno da vivere. Ecco perché rattrista archiviarne un altro né migliore né peggiore dei tanti accatastati nella memoria dove regna la confusione.


I nostalgici sono una categoria in crescita. Nelle discussioni rimpiangono i bei tempi andati, quando d’estate era caldo e d’inverno era freddo, i giovani non si drogavano, erano più rispettosi e si vestivano con cura, leggevano molto e non andavano in discoteca; le famiglie villeggiavano e i bambini, ah i bambini, trascorrevano un mese in colonia che un po’ di disciplina mica gli faceva male.


E gli ideali? Esauriti. Dagli anni di piombo siamo passati agli anni di merda. Se i brigatisti l’avessero saputo, invece di Moro avrebbero ucciso Berlusconi anche se nel 1978 era pressoché sconosciuto. La politica era una cosa alta, adesso il livello è sceso a Brunetta, popolare perché se la prende coi lavoratori sfruttati. Le case editrici fanno schifo perché sono finite nelle mani del Cavaliere, perfino la Einaudi.


In certi ambienti chic la minaccia ricorrente è: dobbiamo espatriare, l’Italia è infrequentabile. E in effetti parecchi sono di parola: si tolgono dai piedi agli inizi di agosto; il guaio è che in settembre rientrano e quatti quatti si accucciano nei loro posticini a rendita sicura.


Giovanni Sartori, insigne professore e assiduo frequentatore della prima pagina del Corriere della Sera, a furia di collezionare Ferragosti su Ferragosti si è talmente immalinconito da preoccuparsi del futuro, come non bastasse il presente. Entro il secolo, prevede, il surriscaldamento della Terra avrà ridotto l’Italia (e il resto) a un deserto immenso. Lo ha scritto in un articolo menagramante proprio venerdì; così, tanto per tenerci giù di morale.


Per il momento dalle mie parti non fa che piovere e la collina sulla quale ho casa è a rischio frane. Ma può darsi abbia ragione Sartori. Nel qual caso si spiegherebbe come mai gli italiani comprano giganteschi “fuoristrada”: si portano avanti consapevoli che queste automobili sono attrezzate a percorsi tortuosi fra le dune. Siamo un popolo lungimirante. Anche se di umor nero. Ma così nero che un’altra firmissima del Corrierone, Claudio Magris, tiene una rubrica terapeutica dal titolo: “Malumori d’agosto”, nella quale sfoga ogni suo livore. Di norma ce l’ha con Berlusconi, ma venerdì s’è scagliato contro l’intera classe politica italiana dimostrando larghezza di vedute.


Lo scrittore triestino sostiene che i leader nazionali, a differenza di quelli stranieri, non hanno ancora imparato l’arte di uscire di scena; un vizietto diffuso in verità anche in settori extrapolitici. Gli si può dar torto? Non si potrebbe. La predica è giusta, ma il pulpito lascia perplessi.


Magris è ormai un settantenne e scrive da sempre. Non dico sia un fossile, se non altro per affinità anagrafiche. Però l’età della pensione c’è tutta, per lui e per me. Se non molliamo noi, mi sa dire perché dovrebbero mollare gli altri? Chi stabilisce, e in base a quali criteri oggettivi, se uno è in grado di proseguire nella propria attività o è giunta l’ora di voltar pagina e dedicarsi ad altro, per esempio la scopa d’assi? Nel caso dei politici, il giudizio spetta agli elettori; in quello degli scrittori e dei giornalisti, spetta ai lettori.


Rimbaud abbandonò presto le lettere di sua sponte. Forse aveva capito di aver esaurito la vena. Ma l’esperienza di un individuo non vale per chiunque. E poi a pensarci bene questa storia della gerontocrazia inamovibile non regge. Se c’è un giovane in gamba si faccia notare, nessuno gli cederà il passo ma nessuno lo ostacolerà se non la vita, che è complicata per ogni uomo, poco generosa e molto esosa.


Più che il pessimismo trionfa il catastrofismo. Da quasi un decennio i compulsatori di effemeridi economiche annunciano il fallimento dell’Italia, paragonando i suoi dati depressi a quelli effervescenti di altri Paesi europei. Adesso costatiamo di non avere il monopolio della crisi. Con la stagnazione e la recessione devono fare i conti anche i partners della Ue, e pure gli Stati Uniti. Non è di sicuro un motivo di consolazione, ma di riflessione sì. Germania e Inghilterra ci hanno fatto le pulci coprendoci di insulti incoraggiati da noi stessi specialisti in autoflagellazione e autodenigrazione.


Un consistente contributo allo sputtanamento nazionale è stato dato dalla stampa e dall’informazione in genere. Giornali e tivù hanno fatto a gara nell’enfatizzare le difficoltà interne, e minimizzando o addirittura ignorando le positività, tra cui la forza e la tenacia delle piccole e medie imprese lombarde, venete, emiliane, marchigiane cui si deve, per dirne una, l’aumento vertiginoso delle esportazioni.


Ovvio, i giornalisti stranieri corrispondenti da Roma, i quali si abbeverano alla fonte santoriana di Anno Zero e similari, nei loro reportage ci dipingono come un branco di deficienti allo sbando, capaci di tutto e buoni a nulla. Da un lustro i telegiornali mandano sistematicamente in onda dei servizi allo scopo di documentare (falsamente) che qui la gente non ha i soldi per tirare fine mese, e crepa di fame. Le solite stucchevoli interviste di maniera girate nei mercati alimentari delle periferie metropolitane; parlano casalinghe disperate e pensionati meridionali dalla lacrima facile: le zucchine costano troppo, non me le posso permettere.


Sembra che la cucina patria si fondi sulle zucchine, un bene prezioso da cui dipende il benessere dei cittadini dalle Alpi a Pantelleria. Ma chissenefrega delle zucchine e delle ciliegie!


Ogni tanto i cronisti con telecamera incorporata si ricordano degli operai. Col lanternino ne trovano tre alla canna del gas e grazie alle loro lamentele costruiscono un affresco italiano da suicidio collettivo: l’Italia afflitta da una moria di proletari stroncati dall’inedia. Dai oggi, dai domani si è affermato il concetto, anzi il preconcetto che la Penisola sia il nuovo Biafra.


Questo tipo di trasmissioni e di pubblicistica si è bruscamente interrotto per dare spazio ad un’altra piaga del Paese: l’esodo dei vacanzieri. E sul video ecco un’orgia di auto incolonnate, spiagge affollate come stadi in occasione del derby, caro-ombrellone di qua e caro-ombrellone di là, in Sardegna neppure un buco dove infilarsi. Immagini in netto contrasto con quelle a suffragio della teoria del piagnisteo. Una nazione affamata che chiude per ferie è una contraddizione in termini. Cioè una balla.


In questo fritto misto si inserisce l’ultima polemica. Umberto Bossi vuole reintrodurre l’Ici perché è una tassa federalista utile a finanziare le amministrazioni locali. Ma uno Stato che grava di imposte la prima casa spesso acquistata con sacrificio e al prezzo di mutui onerosissimi fa schifo, che sia federalista o non federalista.


Occorre denaro? Pigliatelo a chi ne piglia troppo e non produce niente. Date un’occhiata alle contabilità del Sud e vi accorgerete quanto ci sia da recuperare.


Fuori le mani dalle nostre tasche.

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