Bastia

II caso Calabrese e le difficoltà del centrodestra in Umbria

Il centro-destra nella nostra regione avrà qualche chance di vittoria se saprà trovare una convergenza sul programma e se uscirà dai propri confini cercando alleanze trasversali


Bisogna temere la cultura del sospetto, il fondamentalismo etico e l’intransigenza ideologica che inficiano il confronto democratico


Enzo Baldoni e Fabrizio Quattrocchi erano due italiani perbene e non è giusto che si infanghi la loro memoria, per ragioni, strumentali


 di ALESSANDRO CAMPI


Era già tutto deciso. Questa settimana  mi sarei occupato,come altre volte mi è capitato, di Forza Italia e delle sue divisioni interne. E più in generale della Casa delle Libertà e delle sue (al momento confuse) strategie in vista delle prossime consultazioni amministrative. Avevo già predisposto gli appunti, fatto le mie brave telefonate, buttato giù lo schema dell’articolo. Sarei partito ovviamente dalle polemiche dichiarazioni di Francesco Calabrese, consigliere di Forza Italia al Comune di Perugia, che nel corso della discussione sul programma presentato dal Sindaco Locchi ha duramente criticato, più che quest’ultimo e le linee guida d’azione della Giunta in carica, come sarebbe stato politicamente normale e doveroso, il suo (attuale) partito, i suoi (attuali) compagni di strada e l’intera coalizione di centro-destra. Delle accuse di Calabrese, secondo il quale un eccesso di tatticismo e di personalismo impedisce a Forza Italia e alla Casa delle Libertà di presentarsi agli elettori come un’alternativa politicamente credibile, avrei scritto che sono condivisibili nella sostanza, ma non nella forma e per la sede in cui sono state espresse. Ma avrei anche detto, a proposito delle reazioni determinate dalla sortita di Calabrese e in particolare del duro comunicato dettato ai giornali dal senatore Franco Asciutti, che limitarsi a criticare la forma, arrivando persino a minacciare sanzioni disciplinari, evitando di andare al nocciolo politico delle accuse è altrettanto insensato e irresponsabile.
Il malessere della Casa delle Libertà, questo avrei detto, è reale e profondo ed è stato confermato dall’esito tutt’altro che positivo delle scorse elezioni. D’altro canto che senso ha invocare la disciplina di partito per un partito, intendo Forza Italia, che in Umbria più che altrove non riesce ad essere tale e che si presenta, nella migliore delle ipotesi, come una federazioni di forze, ognuna gelosa delle propria antiche appartenenze ideologiche e partitiche? Un partito che non si è dato una linea coerente e unitaria nemmeno sullo Statuto regionale. Un partito dove ognuno pensa di poter fare fuori il proprio vicino, immaginando di essere più furbo o più bravo, come ben sa soprattutto il coordinatore regionale Luciano Rossi, il cui posto, da due anni questa parte, tutti vorrebbero prendere, senza però aver dimostrato sino ad oggi, tra un comunicato stampa e un viaggio a Roma, di essere davvero più bravi e più furbi di lui. Il che, detto per inciso, fa di Rossi, sino a prova politicamente contraria, la persona adatta per un ruolo dove altri, di sicuro, avrebbero fatto e farebbero peggio di lui.
Avrei poi inevitabilmente parlato, sulla scia di tutto ciò, del balletto sulle candidature che si è aperto con il solito fuoco incrociato di comunicati stampa e interviste pilotate. Quale esponente del centro-destra dovrà sfidare Maria Rita Lorenzetti con la minima chance non dirò di batterla ma di non uscire dalla competizione, politicamente parlando, con le ossa rotte? Avrei scritto, a costo di risultare sgradito, che nessuno dei nomi sinora circolati mi sembra all’altezza della sfida; che prima dei nomi occorre comunque intendersi sul programma e su ciò che si ha da dire alla società regionale; che per vincere in Umbria il centro-destra deve uscire dai propri confini e cercare alleanze trasversali; che una strategia vincente può comportare qualche costo a livello di ambizioni personali; che, infine, sarebbe un errore gravissimo consentire a un qualunque esponente del centrodestra di candidarsi alle regionali con il solo obiettivo di preparasi il terreno, in termini di visibilità e di consenso, in vista delle successive consultazioni politiche del 2006.
Avrei anche fatto notare, e sarebbe stata l’ultima cosa che avrei fatto notare, come ogni ipotetico candidato abbia in casa propria, più che negli altri partiti della coalizione, gli avversari più risoluti. In Alleanza nazionale Laffranco è avversato, per ragioni politicamente nuove ma affettivamente antiche, da Benedetti Valentini. In Forza Italia, Fiammetta Modena, sulla quale pure molti avevano puntato immaginando, per la Regione, un testa a testa fra lei e la Lorenzetti, due signore che masticano seriamente di politica, ha contro tutto il suo partito, ma soprattutto ha contro se stessa, la sua irrisolutezza, il suo non accettare mai lo scontro sino in fondo. Ma tutti contro, in Forza Italia, hanno e avrebbero anche Rossi o Asciutti o la Urbani laddove decidessero di avanzare la propria candidatura. Un gioco di ambizioni malriposte (per alcuni) e di veti incrociati, quello appena cominciato, dietro il quale si profila già, a conclusione dei litigi, una scelta al ribasso, quasi occasionale o di ripiego, come quella verificatasi la scorsa primavera per il candidato sindaco di Perugia da opporre a Locchi. Anche per la Regione si ripeterà un copione
analogo? Insomma, avrei detto, cercando di argomentarle, tutte queste cose.
Mi sarei occupato di politica, dei personalismi che,ormai da anni, dilaniano e rendono oltremodo debole l’opposizione di centro-destra (e Forza Italia), di un quadro politico regionale che non si riesce a sbloccare, di un dibattito politico-culturale animato sempre dalle stesse voci, di un pezzo di società civile che, per colpa del centro-destra e della sua attuale classe dirigente, è costretto a stare alla finestra, spettatore passivo. Una litania non troppo originale, che ho recitato più volte e che temo dovrò ripetere anche in futuro.  Ma poi ho cambiato idea. Ho infatti letto sui giornali di quel gip di Bari che ha risolto a suo modo l’enigma dei quattro ostaggi italiani sequestrati in Iraq nell’aprile di quest’anno: erano “mercenari”, ha scritto nero su bianco, “fiancheggiatori delle forze della coalizione”, la qual cosa “spiega, se non giustifica, l’atteggiamento dei sequestratori nei loro confronti”. Ho poi letto le dichiarazioni, non meno gravi e sconcertanti, dell’ineffabile padre Benjamin,secondo il quale dietro l’uccisione di Enzo Baldoni non ci sarebbe lamano dei sequestratori iracneni,esponenti di quella “resistenza” per quale egli simpatizza in modo aperto, ma quella di “personaggi vicini all’intelligence”, uomini decisi a
fare tacere per sempre il povero cronista italiano per la semplice ragione che quest’ultimo “sapeva troppo”. Ho letto queste cose e, preso da un sussulto di indignazione misto a vergogna, mi sono convinto che i mal di pancia del centro-destra umbro sono in realtà poca e misera cosa. Che sono altri, a ben vedere, i terreni di battaglia sui quali misurarsi, le cose di cui preoccuparsi, le derive da fronteggiare. A cominciare da questo modo orribile e strumentale, quasi orwelliano, di leggere la realtà dei fatti che sembra avere preso piede nel nostro Paese: per ragioni di accecamento ideologico, per eccesso di faziosità, ma anche per la volontà di intorbidare sempre e comunque le acque, di sollevare polveroni e misteri anche laddove non ne esistono, di insinuare senza mai addurre una prova sapendo che poi nessuno ci chiederà conto dei dubbi e delle “false verità” distribuite ad arte e con finalità non sempre chiare. Uomini di legge che ragionano e scrivono come militanti no-global e attivisti politici, uomini di chiesa che parlano e agiscono come agenti segreti al servizio di chissà quale potenza o gruppo armato: tutto ciò sconcerta e preoccupa, dà la misura di come tutti noi ormai si viva all’interno di una nebulosa, in uno stato di perenne confusione mentale, senza più appigli istituzionali, etici o intellettuali.
Colpisce, in particolare, questo gusto della provocazione fine a se stessa, la ricerca costante (negli altri, mai con riferimento a sé) di secondi fini o di obiettivi più o meno occulti, il rifiuto di qualunque evidenza empirica o storica a beneficio di verità puramente fantasiose, l’incapacità a calarsi nel proprio ruolo e ad assolvere con un minimo di senso del dovere, con misura ed equilibrio, la propria funzione.
Le quattro “guardie del corpo” andate in Iraq per tirare su qualche soldo erano, per il gip Giuseppe De Benedictis, “mercenari”, per di più al servizio degli americani. E si legge in questa qualifica una sorta di disprezzo etico e sociale, tipicamente di sinistra, molto politicamente corretto ma anche del tutto gratuito. Non si tiene conto, pensando in questo modo, che in fondo siamo tutti mercenari, tutti al soldo di qualcuno, tutti partigiani più o meno in buona fede di qualche causa, che difendiamo perché tutti abbiamo i nostri ideali ma anche le nostre buone (e legittime) convenienze materiali. Sono “mercenari” coloro che fanno i gorilla agli uomini d’affari, ma lo sono anche coloro che, equivocando con le parole, chiamiamo “volontari” e che sono, alla lettera, non benefattori dell’umanità o missionari ispirati da Dio o dalla fede, ma persone che “volontariamente” hanno scelto di fare qualcosa di particolarmente rischioso e disagevole, certo per vocazione, ma anche in cambio di non pochi soldi. Se le parole hanno un senso, “volontari” e un po’anche “mercenari” sono dunque sia i nostri soldati in missione di pace, sia i cosiddetti “operatori umanitari” al servizio degli organismi internazionali o delle cosiddette ong per le cui disavventure così facilmente ci commuoviamo.
Quanto a Baldoni, secondo padre Benjamin non è stato vittima della sua ingenuità politica e professionale, che lo ha portato a guardare con un occhio di simpatia i combattenti iracheni, salvo esserne ucciso in quanto anch’egli giudicato un nemico, ma delle trame segrete dei cattivi di turno, forze oscure, ovviamente al soldo delle potenze occidentali, delle quali il Nostro mostra di sapere tutto salvo poi non dire nulla (per paura? per dovere di segretezza?) che ci aiuti davvero a capire e a uscire da questa nebbia fatta di insinuazioni, di sospetti, di verità biascicate a mezza bocca, di messaggi cifrati indirizzati a chissà chi.
Ecco, stando a ciò che ho letto sui giornali, ciò che davvero bisogna temere perché mina nel profondo il gioco politico democratico, rendendo oltremodo inutili i suoi balletti: la cultura del sospetto, il fondamentalismo etico, l’intransigenza ideologica, la mancanza di spirito di neutralità e di senso della misura che certe professioni invece richiederebbero, la faziosità portata ogni oltre limite, la denigrazione verso tutto ciò che riteniamo alieno rispetto al nostro modo di essere e di comportarci.
Fabrizio Quattrocchi ed Enzo Baldoni erano, nella loro diversità, due italiani perbene, per la cui triste sorte il Paese si è in larga parte commosso e addolorato. Che li si evochi, infangandone la memoria, per ragioni e motivi puramente strumentali, che nulla hanno a che vedere con la loro vicenda personale, è solo il segno di un degrado – politico, intellettuale, linguistico – contro il quale dovremmo rivoltarci con tutte le nostre forze, invece di perdere tempo, come ho comunque finito per fare anch’io in quest’articolo, con camarille politiche di periferia.


ALESSANDRO CAMPI

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