Bastia

FORZA PRODI, MOLLALI

di VITTORIO FELTRI


Prodi si è sfogato. Una lunga intervista al fiele in cui se la prende con tutti tranne con se stesso. Secondo lui gli alleati dell’Unione, una dozzina di partiti (poligamia innaturale), hanno sbagliato: troppe chiacchiere, lagne, lamentele contro le decisioni del governo. E ciò ha generato la sensazione che la maggioranza sia disomogenea, animata da interessi diversi. In una parola, allo sbando. Cosicché gli elettori hanno voltato le spalle al centrosinistra; e profittato delle amministrative (che con la politica romana c’entrano poco) per manifestare dissenso. Parliamoci chiaro, il premier è in disgrazia, come tutti i premier italiani l’indomani di ogni sconfitta, e per noi sarebbe facile – ora che è a terra dolorante, cosparso di lividi – pigliarlo a calci come abbiamo fatto con ardore, talvolta eccessivo, quando era in piedi, pimpante nella sua mortadellaggine. Non sarà così. Al contrario, gli riconosciamo qualche buona ragione, ma non ne possiamo tacere i torti. Cominciamo dalle ragioni. Il Paese un anno fa era in gravi difficoltà. Del resto lo era anche nel 2001 quando ne assunse la guida Berlusconi. L’Italia è in difficoltà da tempo immemorabile. Quarantacinque anni orsono era alle prese con la congiuntura, i primi sintomi di inflazione. I sindacati premevano per ottenere aumenti salariali. Li ottennero. E il denaro perse potere d’acquisto. Poi venne il Sessantotto. Un casino infernale tollerato dal centrosinistra organico. Poi venne il terrorismo, all’inizio coltivato amorevolmente dal Pci (quindi combattuto dopo che i buoi erano fuggiti dalla stalla), e fu una lunga tragedia ben rappresentata dalla copertina del tedesco Spiegel: un piatto di spaghetti con sopra la pistola (P38). L’inflazione galoppava al 20 per cento. Spadolini, presidente del Consiglio, raddoppiò in un amen il debito pubblico, mai più abbassato né da Craxi né da Goria né da De Mita né da Ciampi né da Amato uno né da Berlusconi uno, né da Dini né da Prodi uno né dal D’Alema né da Amato due né da Berlusconi due. Questa in estrema sintesi la storia penosa della politica patria. Poi ci si chiede perché la gente ne abbia pieni i sacri gingilli. Dunque è vero che il Professore, nel 2006, ha ereditato una situazione pesante che però non è mai stata leggera, e chi lo scopre adesso o è in malafede o è fesso. In ogni caso Prodi ha principiato la sua seconda esperienza in condizioni non agevoli. Diamogliene atto. E ha fatto quello che si doveva fare: chiama a raccolta gli alleati e chiede loro di stringersi attorno al governo impegnato nella realizzazione del programma. Mi raccomando – disse – nessuno sgarri. Siamo una compagnia eterogenea ma abbiamo sottoscritto un piano e dobbiamo sforzarci, tutti, a prescindere dalle ideologie di ciascuno, di portarlo a termine. Risposta collettiva, solenne: sissignore, saremo disciplinati. Tra il dire e il fare ci sono però di mezzo gli schèi, la bottega. All’atto di stendere la Finanziaria sono scoppiate le liti, la cui eco dirompente è giunta anche negli anfratti più reconditi della Penisola. Si disse: questi qui non vanno avanti molto. Il povero Prodi, oltre a dover tenere a bada una opposizione fisiologicamente agguerrita, fu costretto – esattamente come Berlusconi nella legislatura precedente – a combattere contro i suoi per convincerli a chinare il crapone. Fatica improba. Diliberto strillava, Giordano mugugnava, Di Pietro berciava. La Finanziaria passò. Con polemiche ma passò. Gli italiani non valutarono appieno le conseguenze perché un conto è una legge sulla carta e un altro è una legge in vigore. Passarono anche le privatizzazioni. Cose giuste? Mica tanto. Un governo severo coi tassisti, le edicole e le farmacie e generoso con le banche e le aziende (straricche) dell’energia non è un bel campione di progressismo. Transeat. In gennaio gli effetti della Finanziaria non sono più platonici, si palpano, e i cittadini si incazzano. Ovvio, toccati nel portafogli, reagiscono. Prodi si giustifica male ma si giustifica: ho salvato le classi più deboli e colpito le più forti. Ho introdotto equità. Il cuneo rimane un mistero. Ma tutte queste balle sono niente al confronto delle beghe furibonde sulle basi americane di Vicenza. Qui si sfonda la barriera del ridicolo. Diliberto e comunisti vari più Verdi e similari in corteo, ostili al governo di cui fanno parte. Dicono che la loro non è una protesta bensì un incoraggiamento a mandare a ramengo gli Usa. Ma il concetto è debole. D’Alema parla in Senato sulla politica estera e va sotto. Il governo cade e si rialza grazie al pipino Follini, centrodestrorso ora definitivamente rosso, ostetrico del Partito Democratico. Prodi si riprende un po’, caracolla, ma non muore. Miracolo. Si rende conto che con una maggioranza del genere è meglio chiudere il Parlamento. Camera e Senato vivacchiano senza affrontare un solo provvedimento. Il premier si occupa di affari bancari. I problemi del Paese possono aspettare. I Dico, accantonati. La sinistra massimalista è inviperita. Pretende qualcosa per giustificare la sua presenza, agli occhi degli elettori, nella maggioranza. Il clima a tratti è depresso, a tratti teso. Già, si avvicina la data delle elezioni amministrative e si ha la percezione della catastrofe. Che puntualmente si verifica. Ora, tutti contro tutti. Colpa mia, colpa sua, colpa di Prodi. Un colpevole è sempre necessario, un capro espiatorio, uno da uccidere per il bene comune. In realtà il Professore ha cercato solo di fare la sintesi di cento istanze inconciliabili nella speranza di riuscire nell’impossibile impresa di trovare un minimo di concordia e di consentire alla coalizione di non sfaldarsi. Fallimento. E qui parte l’elenco dei torti prodiani. Il torto più grande è quello di avere accettato un ruolo inaccettabile: porsi a capo di una coalizione strampalata, illogica, tenuta insieme da un unico collante, l’antiberlusconismo. Pur di sbattere via il Cavaliere, Mortadella ha assunto il comando di una armata sbrindellata. Ma un nemico comune è insufficiente a trasformare una bolgia vociante in un esercito. Certo, Brancaleone ha battuto alle urne l’avversario, per pochi voti ma l’ha battuto. Poi si è trattato di governare e qui il ronzino Aquilante è cascato per le terre. Ovvio, nessun premier regge se è strattonato di qua e di là. Non è in grado di tenere la linea, la strada, e crolla per sfinimento. Questo, Prodi doveva immaginarselo. L’errore padre di tutti gli errori di Romano è stato questo. Illudersi, una volta insediatosi a Palazzo Chigi, di stringere al guinzaglio la canea feroce degli alleati. Figurarsi. Nessuno in Europa ha osato mettersi in società coi comunisti. Nemmeno Schroeder. Il quale, se si fosse associato coi marxisti e con i verdi sarebbe ancora il numero uno della Cancelleria. Manco per sogno. Piuttosto che condividere il timone con i nostalgici della falce e martello, e morire di crepacuore (lui e la Germania) egli ha aperto le porte alla Merkel con la quale ha inaugurato la grande coalizione. Mica scemo il tognino. Prodi invece è cascato nella trappola. Ha negoziato col diavolo rosso e il diavolo rosso lo ha incastrato in un groviglio di pretese assurde: abolire la legge Biagi, strizzare col fisco le tasche dei contribuenti, intraprendere una lotta all’evasione prendendo di mira chi già paga troppe tasse e risparmiando chi non le ha mai pagate, fottersene delle imprese (che gli si sono rivoltate contro), uccidere i tassisti, i farmacisti, le edicole, i benzinai, tutti quelli che magari votano per il centrodestra, non toccare l’età pensionistica, rubare la liquidazione (Tfr) ai lavoratori. Si rende conto, il povero Prodi, che scippare la liquidazione agli italiani significa portargli via un gruzzoletto agognato per garantirsi una vecchiaia serena? Si rende conto che taglieggiare ulteriormente chi è già in bolletta e senza una prospettiva di puntare sul risparmio è un delitto? Quanto risparmia un disgraziato con una paga di 1.200 euro al mese? Prodi risponderà che l’Inps non ha quattrini per versare le pensioni agli anziani di domani. Sicuro, lo sappiamo. Ma per sanare le casse previdenziali non si massacra il lavoratore. Semmai si manda in pensione la gente a 60 o 65 anni anziché a 57. E perché non equiparare le donne agli uomini? Le donne vanno in quiescenza cinque anni prima degli uomini anche se è assodato che campano di più. Professore, risanare va bene. Però farlo a danno dei redditi fissi è una vigliaccata. Che poi si paga. E lei ha pagato, come si evince dai dati elettorali. E pagherà ancora. Non sarà Berlusconi e non sarà la destra (anch’essa disastrata) a strappare il suo scalpo, bensì la sinistra che lei ingenuamente ha tentato di mettere d’accordo. Se ha un po’ di dignità se ne vada con le sue gambe anziché aspettar di essere buttato fuori da Palazzo Chigi dai compagni, gente inaffidabile, legata al passato, un passato di vergogne. Si iscriva a Forza Italia, non è mai troppo tardi.

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