Bastia

Compagni nel fango


 
          
 Vittorio Feltri



 
Chi di Pm ferisce di Pm perisce. E a guadagnarne è solo l’ex Pm che infatti in Abruzzo ha raccolto messi di voti trasformando l’IdV da partito di nicchia in una potenziale corazzata in grado di procurare altri danni alla sinistra di cui è alleata grazie alla stoltezza politica di Walter Veltroni. Al Pd sta toccando la stessa sorte che portò all’annientamento di democristiani e socialisti fra il 1992 e il 1994, quando imperversò Mani Pulite accompagnata dal plauso gaudioso del Pds nato sui ruderi del comunismo patrio.


A distanza di tre lustri scarsi, la storia si ripete, fornendo una fotografia degli accadimenti che sbriciolarono la prima Repubblica sostituita da un fantasma istituzionale. Il destino ha voluto fosse ancora Di Pietro il picconatore, protagonista sedici anni orsono come oggi di una operazione incredibile con l’aiuto esterno, stavolta, di ex colleghi Pm ben lieti di imitarne le prodezze.


Di Pietro, detto Madonna, entrò in politica dopo aver lasciato la toga con un gesto teatrale. La sua fu un’uscita spettacolare che doveva facilitare una rapida carriera tra onorevoli e senatori. Un imprevisto invece la rese faticosa e la interruppe. Tonino era entrato nel Palazzo dalla porta principale senza nemmeno passare attraverso il giudizio elettorale: subito ministro dei Lavori pubblici, gabinetto Prodi; poi ebbe grane giudiziarie.


Sembrava finito. Ma uno soprannominato Madonna non poteva non essere aiutato da qualche santo lassù, e se la cavò con una sentenza assolutoria. Di lì a poco fu candidato nel Mugello (avversario, Giuliano Ferrara) cooptato nella lista di sinistra curata da D’Alema. Ed eccolo alla Camera. Lo stipendio era assicurato; e un piccolo riflettore acceso, pure.


Di Pietro però visse tempi di mediocrità, rare apparizioni televisive, titoletti sui giornali. Pareva avviato a un sereno tramonto appena ravvivato dal ricordo di antiche glorie, si fa per dire.


L’ex Madonna avrà tanti difetti ma non manca di temperamento; e questo gli ha consentito di continuare con cocciutaggine ad arare il suo orticello facendolo diventare un latifondo. Sorvolo sulle tappe intermedie ed arrivo all’attualità.


Quando Veltroni ebbe l’idea di staccarsi dall’extra sinistra per presentarsi col solo Pd alle politiche anticipate di primavera, nessuno immaginava che all’ultimo momento avrebbe imbarcato l’Italia dei valori. Una scelta frutto della sottovalutazione proprio dell’ex Pm il quale, ad occhi superficiali, dava l’impressione di non essere attrezzato a scendere nell’agone della grande politica e pareva adatto tuttalpiù a compiere azioni di disturbo.


Errore grave. Nel periodo di limbo, egli ha imparato a muoversi con accortezza; fiutata la debolezza di Veltroni e la sua incapacità a intercettare lo stato d’animo della sinistra spinta, ha sferrato un attacco di qua e uno di là, al segretario progressista e al premier dominatore del palcoscenico trattandoli entrambi malissimo. Fatale incontrasse il favore di un’ampia fascia di cittadini che hanno in uggia la sinistra sbiadita e scollata dalla base, odiano il Cavaliere e non si specchiano (più) in Bossi incline a compromessi governativi.


Di Pietro, piaccia o no, ha il vento in poppa. E i suoi numerosi critici farebbero meglio a prenderne atto almeno allo scopo di fronteggiarlo con argomenti più seri rispetto a quelli in uso contro di lui nel PdL. Inutile seguitare a dire che egli è eversivo, che il suo linguaggio è intollerabile, che il suo italiano è approssimativo. Non serve. Le sfumature estetiche non interessano a chi è scocciato, disperato, nauseato dalla politichetta del passo avanti e due indietro, del fare a parole e non fare in pratica, della mediazione a ogni costo, della concertazione e del dialogo tra sordi. Sbaglia chi pensa di silurare i movimenti di protesta appellandosi al buon gusto, al galateo e alla benemerita Accademia della crusca. Qui non è questione di congiuntivi e di consecutio temporum, ma di cose concrete e di programmi da realizzare.


Di Pietro poi non è progressista, lo capisce anche un ciuco; viceversa Veltroni ha fatto finta di non capirlo e si è sposato con lui nella convinzione di mangiarselo; e guarda caso ne è stato mangiato. Adesso è tardi per rimediare: a Walter non rimane che dimettersi onde evitare il peggio al proprio partito sgangherato e sul punto di precipitare – dopo la candidatura della Parietti – nel burrone del ridicolo. Il ridicolo fa più disastri della questione morale violata.


Il Pd, dicevamo all’inizio, è bombardato dalla magistratura. Inchieste in corso, inchieste annunciate, arresti imminenti a Napoli, retate in tutta la Campania, Del Turco in fase processuale, il sindaco di Pescara arrestato, tribolazioni in Lucania, il sindaco Domenici (Firenze) incatenato davanti alla sede dell’Espresso: con un partito conciato così dove crede di andare il povero Veltroni? L’unico luogo in cui può ripararsi è casa sua. Ci vada immediatamente e consegni il timone a qualcuno con buone inclinazioni per le trattative con la maggioranza sulla condotta da tenere, mentre infuria una crisi economica cui bisogna rispondere non con gli scioperi della Cgil, bensì con misure eccezionali.


L’emergenza imporrebbe a tutti una linea di sobrietà e di rinuncia a privilegi anacronistici. Avviene il contrario. La Gelmini propone una maestra per classe al posto di tre, e giù polemiche. Brunetta suggerisce di equiparare l’età pensionabile delle donne a quella degli uomini, e giù polemiche. Altri suggeriscono di elevare la stessa età pensionabile per maschi e femmine a livelli europei, e giù polemiche. Libero rammenta la necessità (evidenziata da Berlusconi in campagna elettorale) di eliminare le Province e altri (parecchi) enti inutili, e giù polemiche. Risultato: il governo nicchia. Ma se non procede nella direzione indicata, dove si recuperano i soldi per dare al Paese la forza di reagire e superare l’impasse?


Ha voglia la sinistra, e non solo la sinistra, di sollecitare Tremonti ad allentare i lacci della borsa; se anche il ministro dovesse allentarli, la borsa ora è vuota; prosciugata dal debito pubblico accumulato in tre decenni da un ceto politico dirigente da arrestare in blocco e che, invece, l’ha fatta franca; e ha addossato a generazioni di italiani oneri insostenibili.


Questa è la situazione; l’intero arco costituzionale non se ne rende conto e confida in uno stellone ormai spento.


Le possibilità di salvezza ci sono; non sfruttarle equivale a suicidarsi. La sinistra è già moribonda. Se il centrodestra le va dietro, farà la stessa fine.


Noi non ci stiamo.

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