Nata a Bastia Umbra il 19 ottobre 1826, perse la vita a 23 anni il 13 giugno 1849 per difendere l’Italia

Garibaldi affermò che Colomba, come la sua Anita, era “cosi’ tranquilla e cosi’ coraggiosa in mezzo al fuoco”


Si sposo con il conte Luigi Porzi da Imola, ufficiale della guarnigione pontificia di stanza nella città umbra. Con lui partecipò alla campagna del 1848 durante la prima guerra d’indipendenza


CESARE COPPARI
Bastia Umbra
L’espressione “eroina del Risorgimento” rischia di destare ricordi vagamente olografici: come di stampe slavate rappresentanti ignote nobildonne nell’atto d’arringare, sopraffatte dall’emozione, un intero popolo adunato; o anche di fotografie color seppia recanti l’immagine di eleganti signore sedute con un libro di poesie o un giornale in mano, simboli dell’accesso alla creatività e al sociale; oppure d’operette scolorite, ove anonime serve carpiscono segreti ad ignari ufficiali in uniforme nemica; o, infine, di quadri patinati, i cui tratti palesano irriconoscibili fanciulle con lunghi capelli e ampie gonne nell’atto di morire in piedi colpite dal piombo ostile, invece che spirare orizzontali in abiti da soldato. Prodotte dall’uomo a vantaggio dell’uomo, tali immagini rappresentano il più grave oltraggio contro le donne del Risorgimento, perché le tolgono dal prosaico terreno nel quale agirono ed operarono facendone le unanimi e anonime protagoniste di un racconto senza spazio e senza tempo, ossia d’un mito. Sono avventure brutte, peggiori persino della morte, come essere nominati pompieri dopo una vita trascorsa ad incendiare. Perché non ottenebri gli animi, l’amore della verità deve allora provare una sana insofferenza verso la pretesa “naturalità” di cui costantemente il discorso dell’uomo ha rivestito una realtà perfettamente “storica”. Solo così è possibile riconoscere lo sforzo delle donne italiane per fendere la crisalide del pregiudizio dell’identità di “genere” e per venire finalmente al mondo come riconoscibili attrici della nostra storia. Ecco la pedagogista e poetessa Erminia Fuà Fucinato cospirare ai danni degli austriaci per la liberazione di Venezia; la fondatrice e redattrice del “Circolo delle donne italiane”, Angela Cortesi, versare inchiostro contro la pretesa origine naturale della discriminazione delle donne; la letterata narnese Franceschi Ferrucci stupire Giacomo Leopardi con i suoi versi e votare in spregio alle leggi degli uomini, pregando marito e figlio di tornare per ultimi dal campo di battaglia; la nobile Cristina Trivulzio di Belgioioso stentare a realizzare quel gesto sociale per eccellenza che è il prendere la parola in pubblico, ma non a comandare i milanesi e i romani sui campi di battaglia calcati con tempra da amazzoni da altre donne vestite da uomo. Una di queste fu la fiorentina Erminia Mannelli, pronta a sfruttare la somiglianza col fratello malato per disertare quella casa ove tornerà morente solo dopo aver compiuto il suo dovere da soldato. E che dire dello slancio marziale di Rosa Strozzi che, perso in battaglia il marito, il capitano Vincenzo Santini, seppe seguire Garibaldi per l’Italia e guadagnarsi una “medaglia al valore”. Più avventurosa e osannata di queste combattenti fu l’umbra Colomba Antonietti, che si battè ventiduenne a fianco del marito ufficiale nella difesa della Repubblica Romana, dimostrando che per esercitare con dignità la professione di patriota era necessario saper morire, come lei, da veri uomini.
Nata il 19 ottobre 1826 a Bastia Umbra da Michele Antonietti e Diana Trabalza, Colomba si trasferì presto a Foligno con i genitori fornai, dove trascorse serena i suoi giorni sino all’incontro con il conte Luigi Porzi da Imola, ufficiale della guarnigione pontificia di stanza nella città umbra. L’amore che subito li prese trovò un ostacolo nello sdegno dalle rispettive famiglie, la cui fedeltà alle antiche distinzioni sociali prese la forma d’un trasferimento a Senigallia del giovane ufficiale. Non bastò. Innamorata dell’amore non meno che del suo uomo, Colomba scelse di vivere sino in fondo la sua passione, a costo della vita. Una licenza di lui fu l’occasione per unirsi in matrimonio nella Chiesa della Misericordia di Foligno il 13 dicembre 1846, alla sola presenza del sacrestano e dei testimoni, un fratello e un’amica della sposa. Seguirono giorni di metodiche avventure, a cominciare dai tre mesi di carcere con stipendio dimezzato vaticinati dal giudice militare a Luigi per essersi sposato senza autorizzazione governativa. Da Trastevere, dov’era ospite dei parenti della madre, Colomba
venne ogni giorno a Castel Sant’Angelo a lacerare l’oscurità della cella dello sposo.
A Roma, intanto, l’effervescenza politica delle grandi dimostrazioni organizzate da “Ciceruacchio” cresceva attorno alla giovane coppia. Gli ideali patriottici si fecero presto strada nel loro cuore ospitale e ansioso di vedere “libera la cara e bella Italia”. Lo scoppio della prima guerra d’indipendenza non li colse impreparati: Colomba seguì il marito per tutta la campagna del ’48 come uno dei suoi soldati. Il parere contrario del colonnello Luigi Masi, vicino a Garibaldi, non valse a dissuaderla dal tagliarsi i capelli e dall’indossare l’uniforme per combattere a Vicenza gli austriaci invasori. Nel maggio del ’49, poi, l’ardimento della coppia nella battaglia di Velletri contro i borbonici fu lodato da Garibaldi che, riconosciutane l’identità dopo averla creduta un giovinetto, accostò Colomba alla sua Anita, “anch’essa così tranquilla e così coraggiosa in mezzo al fuoco”.
Al momento della proclamazione della Repubblica Romana, la coppia era nell’Urbe. Dopo aver assistito in ospedale i tanti feriti degli scontri, il 13 giugno Colomba fu destinata alla difesa delle mura nei pressi di Porta San Pancrazio: mentre porgeva al marito la sacca per riparare una breccia aperta tra il quinto e il sesto bastione dal tiro dei cannoni francesi, fu colpita da un colpo d’artiglieria. Spirò tra le braccia di Luigi, il cui grido disperato traspare dai versi del poeta patriota Luigi Mercantini ed echeggia dalla tela del pittore garibaldino Gerolamo Induno, testimone corporeo d’un dramma che anche Giosué Carducci e Alexander Dumas padre vollero rendere immortale. Il giorno dopo una moltitudine di uomini e donne accorsi a lottare per la libertà da ogni angolo d’Europa salutò con il lancio di bianche rose il passaggio del feretro con la salma di Colomba vestita dell’uniforme militare, ma che la rappresentazione sociale del genere femminile aveva provveduto a coprire con un abito “muliebre”. Decisamente troppo virile per il suo secolo e anche per il successivo, l’eredità lasciata dalla patriota umbra imponeva una ricostruzione della categoria del femminile dal punto di vista del solo ed unico attore della storia: l’uomo.
Prendendo la parola nelle arene della politica, partecipando a riunioni cospirative, dirigendo giornali, scrivendo poesie e, soprattutto, pugnando per la Patria, le donne del Risorgimento si diedero a trasformare in soglie i limiti culturali e giuridici che le negavano un’identità soggettiva sulla scena pubblica, relegandone l’intelligenza, la sensualità e la moralità alla sfera privata, pur sempre soggetta al potere del maschio dominante. Impossibilitate a mostrarsi da subito nel loro essere in un mondo incapace di accoglierle, in tante lasciarono per ultime la casa ormai vuota con indosso i vestiti dei figli procreati per la Patria, guidate dall’invincibile proposito di mettere al mondo se stesse. Soltanto una volta dimostrata la propria eguaglianza poterono togliersi la maschera, esibendo la propria costitutiva differenza. Erano ormai se stesse. Fossero state attrici avrebbero meritato la terra sconsacrata. Ma le donne del Risorgimento ignoravano l’arte perversa del produrre sul volto, o col volto, effetti di menzogna o di segreto. Se scelsero di venire al mondo con i vestiti della lotta fu perché, riconoscendole nella loro femminilità, gli uomini ne avrebbero sciupato l’anima, ignorando il carattere costruito della differenza di genere. Ecco perché nessuno spazio riuscì a mostrarne l’uguaglianza di “natura” meglio del campo di battaglia. Ma ecco anche perché il loro sforzo assunse il carattere dell’eccezionalità, allontanando di molto la possibilità di una vera “rivoluzione culturale”.
Ceduta a Colomba dal sole, la luce dell’“uguaglianza” poté così ritornare al giorno.
Ma ormai né la servile fedeltà al proprio sposo, né il riconoscimento del suo coraggio da parte d’uomini eroici quanto virili, né la mancanza d’istruzione, e nemmeno tutti i vestisti “muliebre” del mondo, sarebbero riusciti ancora per molto ad annullare il gesto eversivo di questa umile e incolta “eroina del Risorgimento”. Che morì come avrebbe voluto morire ogni uomo.

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