di VITTORIO FELTRI
La campagna elettorale si è iniziata. Sarà più pacata delle precedenti, come dicono e spero, ma sempre di campagna elettorale si tratta. Qualche schizzinoso sostiene che solamente in Italia gli scontri politici siano violenti. Non è vero niente. Negli Stati Uniti è peggio di qui. Non ci si limita a menarsi fra avversari. Se le danno anche fra candidati dello stesso partito, fior di mazzate: guardate la Clinton e Obama, si scannano allo scopo di andare in finale. Questo per dire quante balle ci raccontano quelli che fingono di sapere e non sanno un tubo. Alla vigilia delle competizioni elettorali i duelli sono inevitabili. I colpi bassi, pure. Ieri Libero ha pubblicato un’intervista a Walter Veltroni secondo me importante. Una delle prime cose dette dal segretario del Partito democratico è stata che l’operazione in atto nel centrodestra – la confluenza di alcuni partiti nel Popolo della libertà – è più di forma che di sostanza, una sorta di maquillage, e che lui avrebbe preferito uno scontro diretto fra democratici e forzitaliani. Che scoperte. Veltroni – cui va riconosciuto il merito di aver stappato la bottiglia del bipartitismo – ha dimenticato un particolare rilevante: il suo partito non è nato sotto un cavolo, ma è il risultato della fusione dei diessini e delle margherite. Due partiti in uno. Per quale motivo il Cavaliere avrebbe dovuto schierarsi solo con Forza Italia? Chi gli vietava di associarsi ad Alleanza nazionale applicando la stessa formula applicata da Fassino a suo tempo, meno di un anno fa? Perché la fusione Ds-Margherita è una apprezzabile novità mentre quella Forza Italia-Alleanza nazionale è un maquillage, una furbata? A me sembrano due manovre simmetriche. Va inoltre segnalato che il Cavaliere non è salito sul tram della semplificazione e della chiarezza all’ultimo momento. Il progetto di un unico partito di centrodestra (…) è vecchio come il cucco. Non si era mai realizzato a causa di veti e controveti di questo o di quel leader. A un certo punto Gianfranco Fini ebbe l’idea della federazione in sostituzione della Cdl. Ma la soluzione fu accantonata (non scartata) per mancanza di unanimità nello schieramento. Certamente la decisione di accelerare è stata provocata dalla scelta di Veltroni, assai recente: corro da solo. Nessuno nega il coraggio di Walter. Però, volendo cercare un migliaio di peli nell’uovo, va sottolineato che il Partito democratico non aveva alternative. Se si fosse presentato con gli stessi alleati dell’Unione avrebbe messo in fuga gli elettori, disgustati dalla coalizione guidata da Prodi, un caravanserraglio ingestibile, portatore di interessi diversi e spesso contrastanti. Veltroni ha giocato la carta della disperazione nell’optare per il “faso tuto mi”. Perso per perso, meglio perdere da soli che con il contributo dei massimalisti. Una mossa intelligente che gli consente ora di fare un figurone e di misurare il presente (e un po’ an che le potenzialità) del suo partito fuso. Non ci venga però a dire, Walter, che il Pd ha rotto con i personaggi decrepiti del passato: basti pensare che il presidente è Romano Prodi. La nomenclatura poi è la medesima dei Ds, del Pds e del Pci. La componente giurassica è preponderante, e ad essa vanno aggiunti vari cattocomunisti più o meno pentiti, a cominciare dalla Bindi. Gira e rigira, in politica compaiono le solite facce. E il centrodestra non fa eccezione. Come potrebbe? Comunque è un fatto positivo l’inversione di tendenza registrata negli ultimi giorni. Da anni andiamo tutti ripetendo di essere stanchi morti della proliferazione dei partitini che condizionano i partitoni, e da anni pre- dichiamo l’esigenza di avere due forze, una di qua, una di là, perfettamente alternative e da votare senza patemi d’animo, senza la paura di rischiare avventure. Adesso che finalmente Veltroni e Berlusconi hanno capito e operano per accorpare, si trovano di fronte a un muro di critiche da parte di politicanti la cui ambizione è soltanto quella di non rimanere esclusi dalla spartizione del potere. Serve precisare che il Cavaliere ha agito in fretta e furia. D’altron de in autunno, quando annunciò la nascita del Popolo della libertà, fu aggredito dai dirigenti del suo stesso partito. Figuriamoci gli alleati: Fini e Casini lo mandarono al diavolo. Non erano privi di argomenti: come si fa a mettere in piedi un nuovo soggetto politico in cinque minuti? Berlusconi non aveva usato mezzi termini: dentro o fuori, prendere o lasciare. E si beccò il gran rifiuto. Sono trascorsi mesi durante i quali l’obiettivo numero uno era: licenziare il governo. Che non voleva saperne di morire. Poi morì all’improvviso. E riecco il dilemma: partito unico o coalizione? Il primo, un salto nel buio; la seconda, una comoda carrozza. Il resto è attualità, cronaca fresca. Il Cavaliere e Fini si sono incontrati e hanno concordato: diamo il via al processo di unificazione. Il presidente di An ha dimostrato lungimiranza. Casini è stato invece spiazzato dall’offerta di confluire e si è tirato indietro. E ho l’impressione sia poco convinto d’aver fatto bene. Forse ci ripenserà. La sua posizione è nota: non mi va di buttare a mare la mia Udc, la nostra identità postdemocristiana. Probabilmente gli secca anche annettere il suo orticello al campo dove comandano già Silvio e Gianfranco. Pier Ferdinando ha la mia comprensione. Ma non avrà quella dei cittadini che ne hanno piene le tasche di politici che antepongono il loro interesse priva- to a quello comune. Ne hanno piene le tasche di partiti-ago-della-bilancia e pretendono una svolta, vogliono essere governati; vogliono sapere da chi, per quanto tempo; vogliono sapere quali problemi saranno affrontati. E gradiscono il gesto di buona volontà del quale sono stati capaci Veltroni, Berlusconi e Fini. Ho il timore che Casini abbia fallito (intanto) l’occasione di salire su quel tram diretto a soddisfare gli elettori, stufi marci di assistere al teatrino e bisognosi di aria fresca, almeno un refolo. Queste considerazioni mi inducono a sperare in un ripensamento di Pier Ferdinando, se non altro perché gli conviene visto tra l’altro che l’Udc si è sfilacciata. Non credo che l’etichetta ingiunga a chi bussa a Villa San Martino (Arcore) di trasformarsi in tappetino. Coraggio, Casini, basta poco, che ce vo’? Infine. Si seguita a discutere sulla successione a Berlusconi, come fosse imminente. Mi sfugge il senso del dibattito. Silvio non è più un ragazzo. Ma neanche Matusalemme. Ha 71 anni e lavora come un pazzo. Segno che sta bene e che non ha intenzione di assumere una badante per recarsi ai giardini pubblici da bravo pensionato. Ciascuno si occupi della propria salute, che non è mai troppa. Inoltre si rifletta. Il governo Prodi si è retto quasi due anni sulle spalle ultraottantenni (per non dire ultranovantenni) dei senatori a vita. Al Quirinale è stato eletto un uomo che viaggia, se non sbaglio, verso gli ottantatre. E nessuno fiata. Perché il Cavaliere dovrebbe sloggiare? Sarà che i miei prossimi sono 65, mi innervosisco quando ascolto certi discorsi tipo “largo ai giovani”. Si facciano largo da soli, i giovani, se hanno gomiti. Se aspettano che sia il Cavaliere a darsi delle gomitate si illudono. Nel mio piccolo, evito anch’io di darmene. Regolatevi.
Articolo in PDF:
comments (0)
You must be logged in to post a comment.