A Perugia dalla rottamazione delle ex fabbriche si sono salvate solo le ciminiere
Archeologia industria pubblico miope, privato goloso
Marcella Calzolai
Era un oggetto misterioso, una sorta di tabù, almeno fino a tutti gli anni Ottanta, ma soprattutto era uno spauracchio per amministratori e costruttori. E chi andava in giro per l’Umbria, con la macchina fotografica e il taccuino di appunti, alla ricerca di fabbriche dimesse veniva considerato, al meglio, un velleitario, se non un “rompi” pronto a mettere i bastoni nell’ingranaggio dello sviluppo della città. 0ggi, invece, l’archeologia industriale, il tabù di allora, è diventata persino di moda. Si esercitano sul recupero di grandi aree che hanno fatto la storia dell’industria italiana architetti di grido e ne parlano, spesso e volentieri perfino le riviste femminili. Un esempio? Sesto San Giovanni, la città-fabbrica alle porte di Milano, milioni di metri quadri di ex aree industriali. Era portata ad esempio da uno studioso francese, Pierre George, di banlieu renversée, cioè di periferia rovesciata, dove la gente non tornava a dormire, ma veniva a lavorare. Ebbene, quella che era considerata per la grande concentrazione di operai la Stalingrado d’Italia sta trasformandosi in uno straordinario polo di attrazione, che vede impegnato anche Renzo Piano con un suo progetto per la ex Falck. E tanti sarebbero gli esempi da citare, dalla ex Italsider di Bagnoli all’Arsenale di Taranto, alla Ex. Lanerossi di Schio, per restare nel Belpaese. Ma, volendo sconfinare, ben altro ci sarebbe da registrare, a cominciare dallo stabilimento Van Nelle a Rotterdam, pregiata architettura del Movimento modernista in Olanda, che si sta riconvertendo in una Design Factory. E in Umbria?
Non si incontrano le grandi firme dell’architettura sulla tortuosa via degli “ex” (stabilimenti), che pure nella regione ancora abbondano. Anzi sì, una firma eccellente c’è, ma è legata, purtroppo, ad una occasione mancata. Siamo a Perugia, il luogo è Fontivegge: là dove sorgeva lo stabilimento della Perugina, adesso c’è quella sorta di atollo, avulso dal contesto urbano, che è, l’intervento urbanistico firmato da Aldo Rossi, solo oggi, dopo anni, in via di completamento. L’operazione, molto controversa, tra la proprietà, la famiglia Buitoni, e l’amministrazione comunale venne concertata alla fine degli anni Settanta. E segnò un brutto colpo per gli Indiana Jones dell’archeologia industriale, un manipolo di studiosi audaci che proprio in quegli anni si erano messi all’opera per salvare almeno la memoria di quelle che erano state le glorie industriali della terra umbra: Renato Covino, Giampaolo Gallo, Maria Grazia Fioriti, Massimo Montella, Luciano Giacche, Bruno Toscano, Gino Papuli, tutti studio si, che già allora parlavano di recupero, ma anche di riuso con le amministrazioni per lo più sorde, attratte piuttosto da nuove colate di cemento.
Ed ecco che, per una singolare coincidenza, proprio in quegli anni un esempio illuminante e clamoroso arriva, invece, dal privato. Città di Castello, è il 1978, Alberto Burri ottiene gli ex essiccatoi di tabacco, che poi saranno acquistati dalla Fondazione. Sono le strutture della Fattoria autonoma Tabacchi, costruite negli anni ’50-’60 per l’essicazione del tabacco tropicale prodotto nella zona. In quei grandi capannoni l’artista vede la collocazione ideale per la sua
opera, e ci investe. Li vuole completamente dipinti di nero, la sistemazione viene realizzata a partire dal 1989, un anno dopo l’inaugurazione del museo, che contiene 128 grandi opere donate da Burri, il quale le realizzò tra il 1974 e il 1993. Gli essiccatoi-museo sono visitati oggi da almeno 19.000 persone l’anno, un esemplare intervento di recupero e riuso di un’architettura industriale, dovuto alla lungimiranza di un grande artista. A Perugia, invece, dello stabilimento Perugina resta solo una ciminiera, così come anche della fornace di San Marco. Isolati “simboli fallici”, come ebbe a scrivere lo storico economico Giampaolo Gallo, che non possono testimoniane altro se non l’imprevidenza di chi amministra. E l’elenco delle occasioni perdute può continuare, dalla Colussi in via Canali alle ex officine Siamic, dove le ruspe hanno fatto largo a edilizia residenziale, uffici, negozi. Una tendenza che persiste, visti i progetti in corso per la ex De Megni e la ex Margaritelli a Ponte San Giovanni.
Sarà l’abbondanza di beni culturali storici ad oscurare la vista di chi governa e ha governato la, città?
Renato Covino, docente universitario di Storia contemporanea e direttore dell’Icsim: “Potrebbe essere una concausa, visto che quei beni richiedono attenzione e risorse economiche. Ma risulta evidente anche la tendenza a favorire il ciclo edilizio, con annessi e connessi. A ciò è da aggiungere una caratterizzazione urbana del capoluogo umbro come città di servizi, che sta progressivamente espungendo dalle sue attività economiche e dalla sua cultura l’industria e la produzione, nonostante che negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta l’occupazione industriale avesse nel bacino di Perugia un ruolo consistente, fino a superare la stessa Terni”. Un progetto di recupero, però, è da registrare: l’ex tabacchificio di via Cortonese dovrebbe diventare una incubatrice di aziende high tech, una sorta di cittadella tecnologica. Questa è la previsione urbanistica, ma si scontra al momento con i guai delle società, partecipate dal Comune, Perugia Rete e Semplicità., che do vrebbero dare attuazione al piano. Risultato: è tutto in alto mare. E come non ricordare qui un salvataggio in extremis? La ex Saffa è entrata nei progetti di recupero urbano finanziati dalla Regione, grazie alle battaglie di Italia nostra. Ma in questo bilancio, che chiude abbondantemente in rosso per il capoluogo, alla voce “attivo” va inscritto anche il riuso del vecchio mattatoio comunale, dove ha sede la facoltà di Giurisprudenza. Così come anche il riuso delle ex Officine Gelsomini, inglobate in quella che diventerà la biblioteca umanistica dell’Ateneo. Ma restano episodi nd grande tributo pagato dalla cultura industriale alla politica del cemento e delle grandi cubature… E non c’è da consolarsi, esplorando il resto dell’area nord dell’Umbria. A Bastia da anni gli Indiana Jones dell’archeologia industriale, supportati da Rifondazione, danno battaglia per la Deltafina, la manifattura Tabacchi di Giontella, il cui stabilimento di tutto pregio è stato deciso di abbattere per dar luogo ad abitazioni e negozi.
Scendendo verso il Trasimeno, ecco un’altra storia infinita, quella della Sai, che nasce da un primo presidio aeronautico durante la prima guerra mondiale. Negli anni Trenta, poi, l’azienda si sviluppa fino a raggiungere quasi tremila addetti. Ora un progetto, contrastato anch’esso dall’opposizione di sinistra in consiglio comunale, prevede in quell’area demolizioni e nuove cubature. Sono passati lustri, ma resiste una malintesa concezione della modernità.
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